Tortelli lucchese

Un mese fa tutte le recensioni americane parlavano molto bene di Super Sad True Love Story, il nuovo romanzo di Gary Shteyngart (che aveva scritto Il manuale del debuttante russo, pubblicato in Italia da Mondadori) e così mi è venuta la curiosità di leggerlo. Nel frattempo, ora tutte le recensioni americane stanno parlando straordinariamente bene del nuovo romanzo di Jonathan Franzen, Freedom, che deve ancora uscire ma passa già per capolavoro: tanto che sta crescendo il prevedibile fronte di chi se ne è già stufato a priori, grazie anche a una proverbiale antipatia dell’autore delle Correzioni.

Ma dicevo di Super Sad True Love Story: è una storia ambientata in un futuro molto prossimo, praticamente domani, ma orwelliano: e fa capire di quanto poco manchi al nostro presente per diventare orwelliano (nel senso di 1984). All’inizio è ambientata a Roma, dove il protagonista americano vive una fase decadente della sua vita in una fase decadente della città e dell’Italia che suonano assolutamente familiari al lettore italiano. E però, vengo al punto (il punto per ora, in questa primissima fase della mia lettura), mi ha fatto molto impressione una cosa. C’è questo romanziere di fama internazionale, con un grande editore, incensato dalle critiche, da cui uno si aspetta una grande accuratezza e un grande perfezionismo professionale. E che parla di Roma come se ci fosse stato e conoscesse le cose di cui scrive (con un risultato fallimentare ma a cui molti non sanno sfuggire: quello di dare al lettore l’impressione di una scelta di luoghi, cose, occasioni, che discende dalle esperienze dell’autore e non da una ricerca fatta con criteri di opportunità e congruità con la storia; voglio dire che se i personaggi stanno in una casa di Piazza Vittorio, la sensazione è che quella piazza non sia stata scelta tra le mille di Roma perché più funzionale alla storia, ma perché familiare all’autore, e così per molte altre cose).

E insomma, abbiamo uno scrittore importante, un professionista, che ambienta una parte del suo romanzo a Roma, con personaggi italiani e luoghi e vini e cose italiane (la Rai, il rosso di Montepulciano) e a un certo punto c’è un bambino italiano in difficoltà che dice:

“Aiuto me”

“Aiuto me”? Era così difficile chiamare un qualunque italiano invece di usare il traduttore di Google? E per segnalare la passione del protagonista per la cucina italiana era il caso di usare un piatto che si chiama “tortelli lucchese”?

E insomma suona davvero strana una simile trascuratezza a questi livelli della professione letteraria ed editoriale, e questo è un punto. Il secondo punto: cosa dovrà diventare questo romanzo, proseguendo nella lettura, per superare il mio pregiudizio sulle qualità del suo autore? Sicuramente molto di più dell’unico passaggio che mi sono segnato finora: niente di particolare, ma una considerazione familiare.

That’s what I admire about youngish Italians, the slow diminution of ambition, the recognition that the best is far behind them. (An Italian Whitney Houston might have sung “I believe that parents are our future”). We americans can learn a lot from their graceful decline.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).