Tim James va alla guerra

Non è LeBron. Si chiama Tim. Il cognome, James, è solo una delle tante cose che i due hanno (o hanno avuto) in comune. Tim, come LeBron, è stato una stella del basket liceale americano. Come lui si è guadagnato fama nazionale, prima ancora di metter piede nella NBA. Nella Lega dei sogni c’è arrivato dalla porta principale, il Draft NBA, scelto al primo giro. Pure la maglia, oggi, finisce per unirli, da quando LeBron indossa quella dei Miami Heat, la squadra che è stata di Tim.

Il parallelismo poi continua, spostandosi dalle storie personali dei due ai linguaggi che le raccontano, linguaggi di due mondi diversi, lontani, separati – che solo la storia di Tim ha unito. Sono le parole a suggerirlo, da quelle che rendono l’idea anche se tradotte nella nostra lingua (“battaglia”, “sfida”, “avversario”, “matricola”) a quelle che vanno lasciate così come sono. Tipo “draft”, appunto, che segna l’ingresso nella NBA ma anche l’arruolamento nell’esercito. O tipo “shoot”, che è “tirare” ma anche “sparare”. Esercito. Sparare. Ecco il mondo a cui appartiene oggi Tim James, giocatore NBA in una vita precedente, oggi soldato con una missione in Iraq di 12 mesi già alle spalle, un presente che lo vede di base a Fort Hood, nel Texas, e un domani probabilmente in missione in Afghanistan, l’obiettivo per cui si sta addestrando. Volava in prima classe; oggi si muove coi mezzi militari. Passava da un hotel a 5 stelle all’altro; oggi divide una camerata coi suoi colleghi. Guadagnava milioni; oggi prende 2.600 dollari al mese. Da una sigla di tre lettere, NBA (National Basketball Association), è passato a una di quattro, ODIN (Osservare, Decifrare, Identificare, Neutralizzare), dal nome della sua task force irachena.

A Miami – con quegli Heat oggi di LeBron – lui ha giocato solo 4 partite, da matricola. In totale, nella NBA, poche di più (43). Ma guai a pensare che sia passato inosservato. Uno degli attuali compagni di squadra di LeBron, Udonis Haslem, indossa la maglia degli Heat n°40 in suo onore: “Se sei cresciuto a Miami, Tim era qualcuno che seguivi”. Un altro, James Jones, lo considera “un fratello maggiore: uno che è riuscito a fare, prima di me, tutto quello che io stavo cercando di fare”. L’esempio, l’ammirazione, è ancora più grande oggi. Perché il basket è sport di cambi di direzione, certo, ma quello fatto da Tim James non ha precedenti. E se ce li ha, non sono incoraggianti. Pat Tillman, safety per gli Arizona Cardinals nella NFL, aveva mollato tutto per arruolarsi, finendo pure lui in Afghanistan. Dove a finire, però, era stata anche la sua vita, stroncata dal fuoco amico nel 2004. Stessa destinazione, destini diversi, l’augurio che si può fare a Tim James. “Paura? Certo. Di come una guerra ti può cambiare. E di non tornare più indietro. La sentiamo tutti, chiunque indossi una divisa”. Non più quella di una squadra NBA.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).