Taylor non è la nuova Britney

Dire che li ho guardati è eccessivo: diciamo che, mentre facevo altro, avevo un orecchio rivolto verso la televisione accesa. Comunque abbastanza per capire che agli European Music Awards che si sono tenuti ieri sera a Francoforte ha trionfato Taylor Swift.  Siccome le uniche cose che so su di lei sono – a parte saper canticchiare il ritornello we are never ever ever getting back together, dicevo l’unica cosa che so su di lei è che è stata brevemente fidanzata con Jake Gyllenhaal, sono andata a controllare e ho scoperto che il suo ultimo disco, uscito un mese fa, ha venduto più di un milione di copie. Più precisamente: un milione e duecento mila copie in sette giorni. La fonte è questo articolo di Slate in cui vengono spiegati i meccanismi del suo successo. Semplificando: Swift possiede le due caratteristiche principali richieste a una popstar in tempi di crisi economica ovvero modestia e austerità. Io ci avrei aggiunto asessualità. Basta guardarla: Taylor Swift ha 22 anni e ne dimostra 15. In lei non c’è nulla – nel look, ma neanche nei testi delle canzoni – che richiami al sesso. Diversamente dalle Britney Spears e dalle Cristina Aguilera che l’hanno preceduta, Taylor Swift non ammicca, non seduce, non sculetta, non tira fuori la lingua quando canta. Tutte attività in cui le due sopra erano campionesse assolute. Taylor Swift no, lei non turba. Se mai il contrario: rassicura. E lo stesso vale per gli altri due idoli indiscussi degli adolescenti Justin Bieber e One Direction. Se a diciassette anni Britney Spears sconvolgeva i sogni di adulti e bambini vestita da Lolita in Baby One more time, qui siamo all’opposto, siamo alla infantilizzazione del pop. Non che sia meglio o peggio, però è diverso. Resta da capire perché. Per dilatare all’infinito il periodo della fanciullezza? Perché di fronte a questi idoli eternamente bambini i genitori non si preoccupano e anzi incoraggiano i figli a comprare i dischi o li comprano direttamente loro? Chissà. L’altra cosa che resta da capire che cosa ne sarà di una generazione venuta su a latte, biscotti e Justin Bieber. Mentre ci pensavo, ieri, mi è anche venuto in mente che noi femmine della mia generazione non è fossimo messe tanto meglio: avevamo come sex symbol dei gay. Ok, all’epoca non lo sapevamo, ma rimane il fatto che avere i primi turbamenti per uno come George Michael qualche effetto sulla formazione della nostra sessualità deve averlo avuto. Ne sono così convinta che un mese fa, intervistando al telefono Miguel Bosè, gliene ho chiesto conto. Per chi adesso ha 40 anni, Miguel Bosè è stato un sex symbol, non c’è discussione. Avevamo il suo poster in cameretta, sognavamo di averlo come fidanzato, sospiravamo quando lo vedevamo in televisione. E poco importava allora, che ballasse con gli scaldamuscoli rosa, un dettaglio che, analizzato a posteriori, qualche sospetto avrebbe dovuto crearcelo. Eppure no, niente: lo amavamo. E quindi un mese fa, parlandogli al telefono, ho cercato di inchiodarlo alle sue responsabilità di idolo per adolescenti ricordandogli che io, come tante mie coetanee, avevo il suo poster in cameretta e insomma adesso come la mettiamo con la faccenda che lui è gay e ha pure avuto due bambini da una madre surrogata. La sua risposta è stata: «Vabbe’, non siete venute su mica così male, dai». L’ho amato ancora di più.

Simona Siri

Vive a New York con un marito e un cane. Fa la giornalista e ha scritto due libri: Lamento di una maggiorata (Tea, 2012) e Vogliamo la favola (Tea, 2013). Segue la politica americana, il cinema e le serie tv. Ama molto l'Italia e gli italiani, ma l'ha capito solo quando si è trasferita negli Usa.