Storie di mafia

Voglio parlare della mostra “Storie di mafia”. Raccolgo gli elementi, fotografie, storie, esempi. Mi documento sulle date, gli anniversari, leggo i comunicati, metto insieme le idee. Ho abbastanza elementi per scrivere ma tra le carte c’è il testo di Letizia Battaglia. Lo leggo e penso che non c’è proprio niente da aggiungere, solo il desiderio di condividerlo.

Buona lettura

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Seleziono 17 fotografie per questa esposizione. Erano 16, perché avevo dimenticato di scegliere quella con Giovanni Falcone. Lui ci deve essere sempre nei libri, nelle mostre. Voglio sempre che venga ricordato anche al di fuori dell’anniversario del 23 maggio. Ogni volta che seleziono è il solito estenuante rito, indebolito dalla solita nausea. Questa sì, certo. Il giudice Terranova, sì, ci deve essere. E il boss Bagarella con lo sguardo truce che mi diede un calcio a foto già scattata, questa non deve mancare. E lei la madre a piedi scalzi che piangeva e gridava perché credeva che il morto fosse suo figlio? Questa sì, anche se non è proprio una buona foto. E la bambina con il pallone di cui ho perso il negativo… e poi… e poi?

Quel 23 maggio, era un bel pomeriggio di primavera, Giovanni Falcone stava tornando da Roma con la moglie Francesca e gli agenti di scorta Vito Schifani, Antonino Montinaro e Rocco Dicillo, mentre io tenevo, tra le mie, la bianca e morbida mano della mia mamma, guardando un documentario in TV. In genere andavo a trovarla la domenica pomeriggio, ma quella volta non avrei potuto. A un certo punto si interruppe il programma per comunicare che era successo qualcosa a Falcone in autostrada. Rimanemmo immobili per qualche secondo, il panico mi prese, non capii veramente più niente. L’unica cosa che seppi fare fu di telefonare in studio e di avvertire Franco e Shobha. Io no, io non sarei andata in autostrada, mai più sarei andata a fotografare i morti e tutto il resto. Diedi un bacio a mia madre inquieta, le sussurrai di non preoccuparsi, chiamai un taxi e mi feci portare all’ospedale Civico. In TV avevano detto che sia lui che la moglie erano forse feriti. Salvo un agente di scorta, morti gli altri.

Ci rimasi tre ore davanti al Pronto Soccorso, ad aspettare l’ambulanza, le gambe tremanti, inchiodate per terra, la solita nausea, lo sguardo fisso verso il fondo del viale. Ma non fotografai vivi né Falcone né la moglie Francesca, né li vidi per l’ultima volta. Chissà da dove li fecero entrare. Rimasi con la mia inutile macchina fotografica al collo sino a buio inoltrato. Forse escogitai questa sosta per non vedere né sentire, per evitarmi ulteriori ferite. Così io delle stragi non ho una foto. Una sola, anche brutta, non ce l’ho. Né della strage di Falcone né di quella di Paolo Borsellino. Mi mette a disagio, da fotografa, dovere ammettere che, anche davanti all’orrore di via D’Amelio, io non sollevai la mia camera e non feci neanche un fottuto clic. La mia testa, il mio corpo non volevano più documentare un bel niente. Ripenso ai lunghi diciotto anni in cui fotografai tutto il fotografabile di Palermo, per il mio quotidiano L’Ora. Tutto, pure le partite di calcio. Ma soprattutto la miseria, i morti ammazzati, gli arrestati, le bombe, i processi, la spazzatura, i feriti, i fascisti, le bambine, le donne, le manifestazioni, gli umiliati. Fotografavo, incamerando dentro tutto il dolore civile possibile, tutta la rabbia accumulata in testa, nel cuore e non so dove ancora. Sino a quel pomeriggio quando, mentre tenevo fra le mie la bianca e morbida mano di mia madre, qualcosa mi morì dentro e decisi che non avrei più fotografato né morti ammazzati né dolore né tantomeno mafiosi.

Oggi, dopo venti anni esatti, non posso che deplorare la debolezza, l’ignavia, come chiamarla? che bloccò il mio coraggio. Sì, certo, altri fotografi hanno documentato quello che io non ho documentato, ma questo non mi rende più tranquilla. Era un mio preciso dovere di fotografa resistere, fotografare e consegnare a futura memoria. Le foto che non ho fatto, oggi mi fanno male, molto più male di quelle altre. Perché sono tutte qua, dentro la mia testa e non le posso dividere con nessuno.
Letizia Battaglia
Marzo 2012

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Storie di mafia è una mostra di fotografie di Letizia Battaglia e Michela Battaglia a cura di Giovanna Calvenzi. Raccoglie due lavori che parlano della stessa cosa: Il dolore della memoria di Letizia Battaglia, fotogiornalista palermitana tra le più apprezzate al mondo, racconta i crimini mafiosi degli anni di piombo fino all’uccisione di Falcone nel 1992. L’altro, Topografia della memoria di Michela Battaglia, giovane fotografa palermitana, documenta i luoghi in cui quelle stragi sono state compiute.
Dal 13 aprile fino al 3 giugno alla galleria 10b photography
Via S.Lorenzo Da Brindisi, 10b  00154 Roma – www.10bphotography.com
In collaborazione con Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
Il volume Storie di mafia è edito da Postcart.

Renata Ferri

Giornalista, photoeditor di "Io Donna" il femminile del "Corriere della Sera" e di "AMICA", il mensile di Rcs Mediagroup. Insegna, scrive, cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi.