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  • Venerdì 9 marzo 2012

Provando a raccontare il Dolore

Premessa: questo post è stato, come al solito, costruito sui vostri commenti al cappello introduttivo. Erano però talmente articolati e densi che, estrapolare una frase, voleva dire impoverirli, per cui vi rimandiamo qui.

Speculare, deriva dalla parola latina specula o specola, un luogo eminente da cui guardare osservare e ragionare.
E sul dolore di speculazioni in “senso etimologico” se ne sono fatte tante…

Per Aristotele era una “passione” la cui terapia doveva esser più che altro filosofica.
In epoca medioevale, era un signum antropologico, l’abbatessa Hildegard von Bingen, per esempio, collegava il dolore al senso facendone visione trascendente della realtà: con “lui” si prendeva parte alla passio Christi e solo così si poteva esser uomini.
Poi è venuto Cartesio, anima e corpo si sono separate e allora il dolore è diventato qualcosa che si poteva superare facendo appello alla coscienza, alla ragione.
Per Hegel il dolore era il dissidio tra la vita e l’idea. Per Leopardi e Novalis il dolore poteva innalzare l’anima. Per la recente antropologia filosofica il dolore è meno etereo, più fisiologico, anche se “il dolore passa, ma l’aver sofferto non passa mai”.

Certo, osservare e analizzare continuamente qualcosa, serve a conoscere meglio e ciò che si conosce bene si teme meno.

Ma dal suo senso etimologico in poi, della speculazione del dolore, voi (e noi) diffidate: chi ha subito e/o vissuto un’esperienza traumatica non ne parla con non-curanza e tono da paternale e tanto meno la utilizza per diventare santone (Simona).
Ma forse, meno speculativa e più testimoniante, la letteratura, quella vera, ha trovato un suo modo di parlare del dolore.

Un giovane scrittore e intellettuale italiano – che il dolore lo conosce – ha individuato nella sua narrazione da dentro una forma di resistenza, utile per allontanare la morte, come la Sherazade delle Mille e una notte.
Peter Handke, invece, scrisse Infelicità senza desideri tentando di oggettivizzare una perdita. (a proposito Alessandro questo libro ha una genesi interessante, all’opposto dell’input che ci hai dato).

Sia che il dolore sia narrato da dentro, come nel caso del libro di Forest, sia che lo si faccia prendendone le distanze, come in L’anno magico di Joan Didion o il libro di Handke, dalla discussione esce che l’importante è esser lontani dalla speculazione. Sia da quella più stretta al senso etimologico, appannaggio della filosofia, sia da quella che sfrutta l’accezione più moderna e distante dall’etica.

Parlare del dolore, insomma, è giusto e sacrosanto se serve a distribuirlo o a focalizzarlo (fiorenza) o per farne terapia (LaLaiza ), per tutto il resto, siamo intesi, si tratta di qualcosa che dovrebbe rimanere nella sfera dell’indicibile.


Qualche altro consiglio di narrazione del dolore. Fuor di speculazione:

La malattia di Sachs, Martin Winckler
Càpita, Gina Lagorio
Orologio senza lancette, Carson McCullers
Mare dentro, film del 2004 diretto da Alejandro Amenábar
Il mio piede sinistro, film del 1989 diretto da Jim Sheridan

Questo post è stato scritto da: fiorenza, LaLaiza, Simona, lapid, ombretta, Alessandro Smerilli, ilaron, @Zarsibil, @thomasgalli, @nikchinaski, @nina_mau, @davidefent, @martina_germani, @IlariaColombo1, @SimonaAlmayer

Credits foto: Photo by VecchioThree LionsGetty Images

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.