Un gioco già visto

Lo ha detto subito D’Alema. L’ha ribadito con una certa solennità Reichlin. Poi l’hanno ripetuto, usando quasi le stesse parole, Franceschini, Cuperlo, Fassina. E al sesto dirigente del Pd che interveniva nel dibattito di ieri per garantire che il seminario di Fare il Pd non doveva servire a varare un correntone contro Matteo Renzi, il dubbio sarà venuto anche ai più ingenui: perché un’assemblea convocata per rilanciare un’idea di politica che mette il collettivo davanti al leader, finisce per parlare esplicitamente o implicitamente di una sola persona?

È chiaro che ormai Renzi esercita un’egemonia sulla vita interna del Pd, condizionandola in positivo o in negativo. Del resto, da qualsiasi storia politica provenissero, tutti gli intervenuti di ieri hanno introiettato l’assillo della leadership molto più di quanto siano disposti ad ammettere, per il motivo banale che per tutta la loro vita hanno partecipato, da protagonisti o da supporters, a grandi confronti e scontri fra personalità politiche.
Una volta di più, la forza principale di Renzi è stata nella sua assenza mentre tutti parlavano di lui. E nel parlare lui, invece, alla fine, dalla tribuna di un tg nazionale, rivolgendosi non a una platea ristretta ma al più vasto pubblico televisivo: il tipo di mossa mediatica che manda comprensibilmente in bestia i quadri del partito, ma fatalmente funziona.

Il botta e risposta di ieri fra D’Alema e il sindaco riproduce il cliché della fase della rottamazione, ma soprattutto rende attuale e concreto il timore principale: nonostante le dichiarazioni, stiamo tornando al “tutti contro Matteo” delle primarie. Con la differenza che il consenso nel partito e fra gli elettori è probabilmente ribaltato rispetto ad allora; e che le voci “terze” contro «il raduno dei capicorrente» (Bettini e Pittella, solo per fare due esempi) testimoniano quanto sia più pagante adesso sparare contro l’(ex) quartier generale, che contro l’(ex) outsider.

Lo sanno benissimo Gianni Cuperlo e Pippo Civati.
Il primo ha tutto da perdere nel farsi schiacciare sull’establishment o peggio sui Ds: non lo merita e cercherà di evitarlo come ha già detto ieri (ma deve operare qualche strappo in più).
Il secondo deve trovare, fin dall’iniziativa di oggi, un suo spazio: sarà sicuramente distante dal Nazareno, ma vale anche per lui la maledizione della polarizzazione fra la vecchia élite e il nuovismo dell’antico sodale della Leopolda.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.