Ripartire dal futuro

Sono stato alla riunione di un circolo del PD a Milano, un paio di sere fa. C’erano tre nuovi iscritti, gente che ha deciso di prendere la nostra tessera il 4 marzo sera: due erano studenti universitari. Uno dei due ha fatto un intervento molto bello, appassionato: ha rimproverato il partito di non aver difeso le sue riforme a sufficienza: di aver ceduto sui voucher, per esempio, o sulla buona scuola. E di aver perso così consenso non solo presso chi voleva conservare lo statu quo, ma di aver deluso anche chi si aspettava che la nostra capacità riformista fosse più limpida, più coerente, meno timorosa.

Nessuno dei presenti, vecchi e nuovi iscritti, ha chiesto che tornassimo indietro. Mi hanno chiesto più PD, non meno PD. Ha dunque ragione chi, come Walter Veltroni oggi sul Corriere della Sera, dice che tornare indietro sarebbe per il PD un errore esiziale e che la prova di questo l’abbiamo davanti agli occhi grazie a quel 3% di voti presi da Liberi e Uguali. Una lista nata intorno a un’analisi corretta (“Abbiamo perso un pezzo del nostro popolo”), ma con un’implementazione disastrosa: il PD ha sì perso il contatto con il proprio popolo, ma quel popolo ha detto chiaramente di non voler tornare al tempo dei DS.

Io penso che voto del 4 marzo non sia stato un voto sul merito delle cose fatte o da fare, ma sia stato un voto sul metodo: un voto per il cambiamento, per un cambiamento radicale, di sistema. Qualche giorno fa, un mio collega parlamentare mi ha raccontato che durante le primarie democratiche del 2016 aveva incontrato una sostenitrice di Bernie Sanders che gli aveva detto che se il suo favorito non avesse ottenuto la nomination democratica, lei avrebbe finito, tra Hillary Clinton e Donald Trump, con il votare non per Clinton ma per Trump.

E’ un fenomeno che abbiamo visto in azione anche con Brexit. E anche in Francia, per far fronte all’avanzata dei movimenti anti-sistema, si è dovuto ricorrere a un movimento, “En Marche”, che pur essendo saldamente radicato nei valori delle democrazie liberali, è nato e si è mostrato come uno strumento alternativo (e contrario) al sistema dei partiti tradizionali.

In fondo, anche il voto delle Europee del 2014 si spiega così. Quel 40% fu affidato a un giovane leader come Matteo Renzi che era al governo soltanto da poche settimane e che era andato al governo scalzando una generazione di leader che venivano percepiti come parte di un establishment che aveva perso la credibilità e l’autorevolezza per far fronte alle sfide del nostro presente.

La parabola del PD è stata inversamente proporzionale al suo divenire “establishment” agli occhi del Paese. Più il governo esercitava responsabilità e saggezza, meno “rivoluzionario” diveniva il suo messaggio, più diminuiva il nostro consenso, in modo del tutto indipendente dalla validità oggettiva delle nostre politiche. Non si è tenuto alcun conto della giustezza delle cose fatte, dei risultati, dei parametri economici tutti migliorati. Il nostro presentare il conto dei progressi ottenuti per il Paese è stato completamente ignorato dall’elettorato.

Lo dimostra il fatto che abbiamo perso voti anche in quelle parti di società per le quali abbiamo lavorato più attivamente e che hanno ottenuto per sé oggettivi progressi dall’azione dei nostri governi. Faccio l’esempio della “mia” Comunità LGBT, perché credo che sia tra i più eclatanti: durante la campagna elettorale mi è stato chiesto assai più spesso di giustificarmi per quello che mancava nella legge sulle unioni civili o nel nostro programma, rispetto a quanto mi sia stato riconosciuto il merito di aver portato a casa uno storico risultato nella scorsa legislatura.

E così sarebbe curioso sapere sapere quanti, tra i più di centomila insegnanti precari stabilizzati grazie al PD, si siano sentiti rappresentati da noi e ci abbiano sostenuto, riconoscendo di esserci fatti carico di un loro problema e di averlo concretamente risolto. La mia impressione è che se anche avessimo non solo proposto, ma fatto noi stessi il reddito di cittadinanza seguendo pedissequamente la formula grillina, il mezzogiorno ci avrebbe votato contro lo stesso.

A moltiplicare questo effetto si è aggiunta anche la sostanziale debolezza dello strumento partito, stretto in un angolo tra l’attivismo del governo e il potere locale di un personale politico che, in particolare nel Mezzogiorno, si è comportato con Renzi come il giunco di quel proverbio siciliano che si piega davanti alla piena nella certezza che passerà e che tutto tornerà esattamente come prima.

È vero dunque che la politica è emozione, che la politica è racconto, che la politica è visione. Ma se è così, l’unica direzione che possiamo intraprendere è quella che ci fa andare avanti, magari accelerando, certo non quella di tornare indietro. Se è vero allora che tornando ai DS non risolveremmo il problema, dev’essere chiaro che nemmeno lo faremmo tornando al PD che avevamo in mente nel 2007.

Bisogna invece tornare a incarnare il cambiamento, in modo deciso. Rappresentare plasticamente l’alternativa a un sistema che questo voto ha definitivamente archiviato. Comprendere che difendendo i vecchi paradigmi finiremmo, anche dicendo cose magari molto giuste nel merito, con l’appartenere a un passato che non tornerà.

Si può e si deve cominciare proprio dal Partito, attuando quel ricambio che abbiamo promosso al centro ma mai rappresentato sui territori: il M5S ha vinto in molti collegi per la semplice ragione che i loro candidati, anche se sconosciuti (o forse proprio per quello), sono risultati agli occhi degli elettori più attrattivi dei nostri.

Bisogna insistere sulla semplificazione, sulla lotta alla burocrazia e alla corruzione, sulla diminuzione della pressione fiscale, sulla trasparenza, sul merito, sulla promozione dell’università, dell’innovazione e della ricerca, tutte cose che abbiamo promesso ma che abbiamo consentito si arenassero, paralizzate dai veti incrociati dei titolari delle troppe rendite di posizione che abbiamo scalfito senza mai riuscire veramente ad abbatterle. E poi continuare a rappresentare e difendere i nostri valori, senza timori e senza compromessi: l’Europa, la scienza, l’inclusione, i diritti, il lavoro.

Bisogna che tutto questo si risolva però in maggiori opportunità, tangibili e concrete, per le persone e in un maggiore ascolto, in una maggiore apertura. In un’empatia che ci è mancata, in una disponibilità a coinvolgere che non è stata sufficiente, in un’apertura che non si è vista quanto era necessario. Noi siamo una comunità, il M5S non lo è. Ma è facile che la percezione si capovolga e che la comunità trasmetta un senso di chiusura, di impenetrabilità, di impossibilità per un outsider di contribuire, di incidere, di crescere.

C’è un bel modo di dire in inglese: “When in trouble, go big”. Quando sei in difficoltà, punta in alto. Rilancia la sfida. I milioni di elettori che scelsero noi quattro anni fa e che sono andati a finire altrove non ci hanno perdonato di essere rimasti a metà del guado e hanno promosso – al di là e indipendentemente delle loro proposte, spesso nemmeno materialmente realizzabili – quelle forze che quella discontinuità per il futuro hanno promesso in modo molto più credibile del nostro.

Se vogliamo tornare a parlare con loro, è da lì, è dal futuro, che dobbiamo ripartire.

Ivan Scalfarotto

Deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri. È stato sottosegretario alle riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento e successivamente al commercio internazionale. Ha fondato Parks, associazione tra imprese per il Diversity Management.