Riflessioni intorno a “Rachel” e al mercato dei film

L’altro giorno sono andato a vedere l’anteprima del film Rachel. Pensavo di scrivere una delle mie recensioni in forma di scheda, ma poi mi è venuto in mente dell’altro. Anche perché le ragioni per vedere questo film sono la passione per Rachel Weisz e/o Pierfrancesco Favino, la passione per le storie in costume e l’amore per le ambientazioni agresti. Al contrario, di motivi per evitare Rachel ce ne sono diversi che non è il caso di elencare: è un film striminzito e insapore. Ma per capire come funziona il cinema a volte sono più utili dei film così che i capolavori.

Rachel è un film tratto da un racconto di Daphne du Maurier. Daphne du Maurier è un’autrice importante per la storia del cinema perché da un suo romanzo è stato tratto Rebecca, la prima moglie, il primo film americano di Hitchcock, prodotto da David O. Selznick nel 1940, accolto da pubblico e critica come un classico istantaneo. In qualche modo il romanzo Mia cugina Rachele è il fratello minore di Rebecca, e c’è già un film del 1952 con Olivia de Havilland e Richard Burton tratto dallo stesso libro.

Roger Michell è un regista sudafricano abbastanza medio, che ha infilato il colpaccio di Notting Hill nel 1999, e da allora vivacchia tra un film carino e uno meno, spesso con un attore di richiamo (Peter O’Toole per Venus, Bill Murray per A Royal Weekend). È regista e sceneggiatore di Rachel, ma il film non ruota attorno a lui, anzi. La star è Rachel Weisz, donna elegante, fascinosa, delicata nella bellezza e nei modi, che qui è una misteriosa vedova nera; accanto a lei c’è Sam Claflin, noto al pubblico per The Hunger Games, belloccio di comprovato fisico, perfetto per storie di tormento e passione. E poi c’è Pierfrancesco Favino. Il film è pieno di camicioni a sbuffo, abiti eleganti per lei, tisane, tanta Italia, tanta campagna britannica, servizi di piatti e cavalli.

Rachel è un film necessario? No. È un film importante? Nemmeno. È un film sensato? Certo che sì! È un film che si basa sullo star system, cioè sulla bella faccia dei suoi protagonisti già amati da una platea quasi planetaria; su un’ambientazione storica in costume che piace a una fetta di pubblico vasta ed eterogenea; soprattutto sui canali che gli permettono di raggiungere un pubblico potenziale sconfinato. Insomma anche un piccolo film come Rachel può incassare più di quello che costa, il che è sufficiente per conferirgli un primo senso essenziale, quello dell’attività economica redditizia. Se un’industria culturale crea le condizioni per produrre in serenità, con una domanda alta e differenziata, tende a prosperare. Per questo – scusate la semplificazione – le grandi industrie tendono naturalmente a compattarsi, proteggersi, fare ciò che è meglio per sé prima di preoccuparsi della concorrenza e delle regole del mercato sano e giusto. Ma andiamo per gradi, torniamo a Rachel.

Un modo per far funzionare un film non straordinario come Rachel è distribuirlo insieme ad altri. Nessun esercente nel 2018 chiederebbe a gran voce di proiettare Rachel, perché effettivamente è deboluccio. Però se te lo noleggio in un pacchetto di altri titoli, come riempitivo, insieme a filmoni vari che ti assicurano il pieno, il suo sporco lavoro può farlo: lo pago in proporzione meno, una sala me la occupa, e soprattutto io esercente indipendente — immaginiamocelo, perché è una figura sempre più evanescente — non ho quasi alternative. Così, prima di andare nel mercato delle pay-tv, dell’on demand, dell’online, dei canali di intrattenimento delle linee aeree e dei treni ad alta velocità, Rachel si fa il suo giro nelle sale.

Il block booking, cioè il noleggio a pacchetti, è una pratica vecchia come Hollywood. Nel 1948 il block booking fu una delle ragioni delle sentenza Paramount, quella con cui l’antitrust statunitense stabilì che le case cinematografiche non sarebbero più state completamente integrate, cioè non avrebbero potuto più concentrare dentro di sé i tre aspetti dell’industria, girare i film, distribuirli e proiettarli, perché questo configurava una posizione dominante che schiacciava gli indipendenti e la concorrenza. (L’altra pratica contestata era il fore selling, cioè la vendita anticipata. Sulla base di un titolo e di un cast, si vendevano film che ancora non erano stati girati, portando così il rischio industriale a zero e assicurando uno slot distributivo a un prodotto che non esisteva ancora.)

Negli ultimi 70 anni le grandi major hollywoodiane hanno fatto di tutto per aggirare i limiti imposti dalla sentenza Paramount, e con grandi risultati. Tanto che in assoluto il sistema del cinema statunitense, almeno nelle sue arterie più importanti, è talmente corazzato da scongiurare quasi sempre l’eventualità del fallimento. Ogni film viene inserito in pacchetti di titoli che vivono nel corso dei mesi e degli anni in diversi contesti, dalla sala di prima visione fino alla terza serata televisiva, passando per sempre più piattaforme, spostandosi di paese in paese, di mercato in mercato. In questo modo il film, sia che abbia successo sia che venga rifiutato dal pubblico, sia che sia splendido sia che sia una mezza schifezza, ha modo di generare valore e uscirne quantomeno vivo. Se pensiamo ad altri prodotti culturali, ci rendiamo conto che ci sono molti meno passaggi, molte meno opportunità di guadagno: una produzione teatrale, un libro, un videogioco hanno molte meno chance di un film anglosassone distribuito urbi et orbi da un colosso statunitense. La cosa, al di là degli eccessi che un tempo l’antitrust sanzionava, ha un suo senso. Gli ingranaggi del cinema sono giganteschi, avviarli ha un costo notevole, ed è meglio farli girare sempre, nel bene e nel male. Fare pochi film per un mercato piccolo, come capita fatalmente ai mercati nazionali europei, è infinitamente più rischioso e difficile rispetto al sistema industriale hollywoodiano. Tant’è che spesso si dice che oggi un film italiano ha al massimo due finesettimana di tempo per attirare pubblico, prima di essere smontato e finire nel dimenticatoio. La cosa — sia chiaro — non ha solo effetti strettamente economici, ma anche culturali. Se i film sono pochi, il pubblico non si abitua ai linguaggi, non si innamora dei protagonisti, non si fida delle locandine. Allo stesso tempo i professionisti del cinema non lavorano abbastanza per migliorare costantemente, osare, sperimentare. Quindi fanno fatica, senza quantità, a diventare qualità.

I film non sono per definizione delle opere d’arte, ma sono per definizione dei prodotti culturali: per esistere hanno bisogno di un mercato. Non è vero, come si pensa spesso, che sia innanzitutto con la qualità che il cinema statunitense si guadagni i mercati che tocca. È vero che nell’ultimo secolo sono stati creati dei canali efficacissimi, che hanno prodotto e ospitato tanti sommi capolavori, ma la qualità delle autostrade non riguarda così direttamente la bellezza di tutte le macchine che ci sfrecciano. È probabile che, quando entreranno in vigore le norme volute dal governo per proteggere il mercato italiano degli audiovisivi, a farne le spese non saranno né Black Panther né I Guardiani della Galassia o l’ultimo Haneke: saranno forse film come Rachel a vedere ristretto lo spazio che hanno ora. Perché la posizione dei grandi distributori americani permette loro di usare il nostro, come altri mercati, per quasi tutta la loro produzione, dal capolavoro al filmetto. E questo è un aspetto del mercato cinematografico globalizzato che effettivamente, al di là dei campanilismi, molti paesi cercano di arginare. Non mi sembra plausibile né sensato che il nuovo sistema di norme e provvedimenti economici attacchi la punta della piramide distributiva; è molto più plausibile che si trovino nuovi spazi negli angoli, nella terra delle commediole romantiche o equipollenti.

Quando prima o poi incrocerete Rachel, in tarda sera su Sky, su un aereo o magari su Netflix, vi sarà molto chiaro che lo stesso identico film si possa fare con Vittoria Puccini al posto di Rachel Weisz, senza perdere gran che. Ma Vittoria Puccini non è Rachel Weisz! Certo, al momento no. (Cani che si mordono la coda, storie di uova e galline). E se anche riuscissimo a fare la commediola dimenticabile, i filmoni quando arrivano? È solo una questione di spazio, sistema e mercato. Perché la qualità non viene necessariamente né prima né dopo la protezione del cinema nazionale, ma una cosa è certa: quando puoi permetterti di guadagnare anche con dei film bruttarelli, è molto più facile che te ne vengano di imperdibili.

Matteo Bordone

Matteo Bordone è nato a Varese negli anni della crisi petrolifera. Vive a Milano con due gatti e molti ciclidi. Lavora da anni a Radio2 Rai e a volte in televisione. Scrive in alcuni posti, tra cui questo, di cultura popolare, tecnologia, videogiochi, musica e cinema.