Ricostruire in fretta su queste macerie

Crollano miti recenti e leggeri come quello dei bellissimi e giovanissimi gruppi parlamentari del Pd: devastati alla prima prova difficile, molto peggio di ciò che era successo ai colleghi grillini settimane fa.

Crollano miti antichi e consolidati come quello delle elaborate convergenze parlamentari regolate dalla Costituzione per l’elezione del capo dello stato: i grandi elettori si muovono lungo percorsi ingovernabili, succubi di una pressione popolare che vuole esprimersi direttamente, mettere veti, votare, in definitiva rovesciare la logica costituzionale.

Crolla il mito di Bersani pragmatico, flessibile, perfetto conoscitore della propria gente. Il mito delle correnti interne, in realtà disperse in decine di rivoli. Il mito dell’Emilia Romagna «sempre col segretario». Il mito degli ex democristiani navigatori imbattibili quando le acque sono oscure. Il mito dell’inciucio, occulto e perfido.

Insomma, crolla tutto.
Perché poggiava su fondamenta fragili. Alla prova più impegnativa, nell’atto di esercitare la forza della propria maggioranza per dare un presidente all’Italia, il Pd è collassato. E nel giro di poche ore sembrano rimaste solo macerie, bersagliate dalle monetine virtuali di una “base” scatenata non contro un nemico ma contro il quartier generale, e contro un candidato che è parte della storia dell’Ulivo, del centrosinistra, del movimento dei lavoratori.

Alla fine del primo giorno di votazioni per il Quirinale, il Pd è prossimo a non avere più non solo un segretario, ma neanche un gruppo dirigente. La delegittimazione è arrivata al punto di suggerire soluzioni come le primarie a voto segreto fra i grandi elettori, oltre tutto per decidere fra nomi – D’Alema e Prodi – che corrispondono a due strategie e alleanze opposte, tra le quali evidentemente non si è più in grado di scegliere dopo averle tentate e praticate entrambe dal 25 febbraio a oggi.
Eppure su questa rovina si può ricostruire, anche rapidamente. La precondizione (invocata perfino dagli avversari) è la ricostituzione dell’unità del Pd. Che servirà a dare un buon presidente al paese, e a ridare speranza di riscatto elettorale a breve a un centrosinistra rifondato sotto una nuova guida.

Il fallimento di ieri è conseguenza di un equivoco intenzionalmente creato fin dal pomeriggio del 25 febbraio.
Ne abbiamo già scritto tante volte: non aver voluto chiamare la sconfitta elettorale col proprio nome, e non aver voluto adattare la linea del Pd a questa imprevista, amara ma ineluttabile situazione, ha portato fino alla drammatica serata del Capranica e all’ancor più drammatica mattinata di Montecitorio.
Invece di porre (e di esporre) il Pd e il suo segretario come dominus del quadro politico, pur non essendolo in realtà, sarebbe stato meglio dichiarare la propria insufficienza e sostenere altre personalità per tentativi di governo e istituzionali sopra le parti.
Piangere sugli errori passati non è tempo perso, perché il Pd paga oggi anche l’auto-impedimento a ragionare sui motivi della sconfitta e a trarne le conseguenze.
Una volta di più, però, questo capitolo (che si sarebbe dovuto aprire e chiudere subito dopo il 25 febbraio) deve essere rimandato in nome dell’emergenza. L’emergenza di individuare un buon capo dello stato entro le prossime ore.

La palla rimane, nonostante tutto, nel campo del Pd. Nell’interesse collettivo, la prima cosa da fare è recuperare una piena autonomia di giudizio, di decisione e di linea.
Impensabile mettere di nuovo la potestà della scelta nelle mani di qualcun altro.
Sia che questo qualcun altro si chiami Berlusconi (che, paradossalmente e limitandoci strettamente alla vicenda del Quirinale, è colui che si è mosso nel modo più lineare, esplicito e prevedibile).
Sia che si chiami Beppe Grillo, la cui operazione di spaccatura del centrosinistra ha avuto un successo straordinario, fino al punto di arruolare sotto la bandiera di Stefano Rodotà non solo l’ex alleato Vendola ma soprattutto una vastissima schiera di opinione pubblica e di intellettualità che il Pd considerava erroneamente “cosa sua”, fino alla corazzata editoriale di Repubblica.

Questo partito improvvisato e multiforme, sostenuto da un possente mainstream digitale, tiene sotto scacco Bersani e l’intero gruppo dei suoi grandi elettori.
Ce ne possiamo rammaricare, riflettendo una volta di più sulla cattiva pedagogia sparsa a piene mani per anni, che rende ormai impossibile qualsiasi manovra politica assimilandola immediamente alla svendita di sé, al compromesso al ribasso, al tradimento dei valori, all’intelligenza col nemico, in una orrenda finale parola all’inciucio.
Rammarico superfluo ora, un lusso che non possiamo permetterci nelle ore cruciali e sincopate della scelta sul Quirinale. Con questo umore di questa metà del paese, che non lascia neanche il fiato per argomentare intorno alla possibilità di convergenze col centrodestra se non altro sulle cariche istituzionali più super partes, tocca fare i conti.

Recuperare autonomia e unità di coalizione in una situazione così difficile, stretti d’assedio da tante parti e con l’approssimarsi di scadenze elettorali certe e vicinissime (il Friuli, Roma) o probabili e comunque vicine (le elezioni politiche anticipate), si può fare solo tornando laddove le fondamenta non sono fragili bensì solide. Cioè alle radici del centrosinistra, su una personalità sicuramente discutibile e discussa ma non certo per la sua competenza, né per il suo spessore internazionale, né per la sua apertura alle novità, né per l’esperienza politica di navigatore.
È chiaro, Romano Prodi è un nome che scuote le piazze di Berlusconi. Bisogna saperlo. Bisogna provare rispetto per quella metà di italiani che contro l’Ulivo di Prodi si sono sempre implacabilmente schierati, ruggendo e spingendo Berlusconi nonostante tutti i limiti conclamati. Si sta eleggendo anche il loro, di presidente.

Motivo per cui, ciò che rimane della fantasia dei democratici deve immaginare una soluzione politica che portando, inevitabilmente, al quarto scrutinio, un uomo di parte al Quirinale (come capitò a Napolitano) possa non far suonare la scelta come l’abuso odioso di uno sconfitto arrogante.
L’altra strada, quella della condivisione, nei nomi altrimenti indiscutibili di D’Alema o Amato, può essere tentata solo alla condizione di un patto ferreo interno, di reggere senza sbavature un’altra inevitabile ondata di rabbia: può permetterselo il Pd? Non è uno scenario svanito via insieme all’incolpevole Franco Marini? Magari no, magari ci si può riprovare: scriverlo oggi sembra un azzardo però autonomia di giudizio significa anche tenere questa opzione aperta.
Vedremo oggi. Quanto al domani, almeno il nome del domani non si possono più nutrire dubbi. Ma di Matteo Renzi avremo modo di scrivere in abbondanza nel prossimo futuro.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.