Qualcosa sul giudice Cocilovo

A costo di incorrere in un’altra querela, però, si potrebbe anche dire qualcosa a proposito del giudice Giuseppe Cocilovo, inteso come il querelante che manderà in galera Alessandro Sallusti. Nei giorni scorsi Cocilovo ha fatto una sacco di dichiarazioni che nessuno ha commentato: si potrebbe provarci, anche perché il magistrato-querelante ha detto, per cominciare, che non gli interessava spedire in carcere il direttore del Giornale, anzi, che «non gliene frega niente»: «Non sono io che ho fatto la sentenza, sono valutazioni tecniche dei giudici, volevo solo che fosse ristabilita la verità». Ma sono tante, le verità.

Una, per esempio, è che Cocilovo in pratica era l’unico che in qualsiasi momento poteva evitare il carcere per Sallusti: e questo semplicemente ritirando la querela, cosa che tuttavia poteva fare sino all’altro ieri – sino alla sentenza della Cassazione, cioè – e ora non più. Non è ancora chiaro a tutti, infatti, che Cocilovo ha già preso i soldi: i 30mila euro «comprensivi del danno morale e della riparazione pecuniaria» sono stati sborsati dopo la sentenza d’Appello «per il danno morale e d’immagine», come ha detto lui. E questo senza considerare le spese processuali e le multe per complessivi diecimila euro.
Cocilovo poteva, sin dal principio, limitarsi a una causa civile: non l’ha fatto.
Poteva, dopo il primo grado che aveva già stabilito un primo risarcimento – più basso: diecimila euro – evitare di ricorrere in Appello per ottenere anche il carcere che l’accusa ha espressamente chiesto: non l’ha fatto.
Poteva dunque, come detto, ritirare la querela prima della sentenza di mercoledì scorso in Cassazione: non l’ha fatto.
Che cosa ha fatto? Ha acconsentito – nei giorni scorsi, cioè prima del sigillo della Suprema Corte – a ottenere altri soldi per chiudere la partita in via transattiva, ossia altri 20mila euro da devolvere però a un ente benefico: ma attenti a dirlo, attenti a scriverlo, perché altrimenti – si è lamentato sulla Stampa e sul Corriere della Sera – «sembra che io voglia quei soldi per me». E invece no: sono trentamila per lui e ventimila per beneficenza, ecco.

Verrebbe da rispondere che fanno cinquantamila lo stesso, e che se vuole devolvere i soldi a Save the Children o a We are the World o giocarseli ai cavalli non cambia un’altra verità dei fatti: che la decisione lascia intatti i 50mila euro complessivi che Libero avrebbe dovuto sborsare (e che in parte ha sborsato) e che lascia immutata la pratica umiliante di dover pagare 20mila euro come «riscatto» (e non quereli, giudice: è per farsi capire) in cambio del ritiro della querela e della libertà di un giornalista. Pare quindi grottesco – se è possibile scriverlo senza accrescere la popolazione carceraria – che il giudice Cocilovo sia riuscito a dire, l’altro ieri, che «non auguro a nessuno di finire in galera». Questo penso: anche perché evitarlo non era difficile. Senza contare, in linea teorica, che il giudice Cocilovo a questo punto potrebbe pure proseguire e promuovere azione civile: basterebbe chiedere dei danni diversi da quelli «morali e d’immagine» per i quali è già stato risarcito. Funziona così.
Ma a Cocilovo, questa versione delle cose, non piace: dire che i ventimila euro sono espressamente «per lui» lo giudica diffamatorio. D’accordo. In compenso il giudice può giudicare «stomachevole» (Corriere.it) l’azione di Sallusti, il quale ha montato un caso e poi ha «tirato in ballo il presidente della Repubblica, il sindacato giornalisti» e in generale la stampa col suo atteggiamento «bieco e corporativo», nessuno escluso, compresi quel «Valentini (Repubblica, ndr), Mentana…» e insomma: «non c’è un giornalista che abbia detto: “Ma qui che cosa è successo?”. Non c’è. Anche se è da giorni che non si legge altro. La «verità dei fatti» è stata ricostruita più volte e da tutti i giornali del Paese, altro che rettifica. E’ andata in un altro modo secondo Cocilovo: quel Sallusti «ha voluto fare una battaglia fino in fondo, e non ho capito neanche perché, in nome di quale principio». Non l’ha capito. E forse – aggiungo – non l’ha capito l’intera stampa italiana, non l’ha capito il Capo dello Stato, l’intero Parlamento, non l’ha capito mezzo paese disposto a farsi «tirare in ballo» da Sallusti: «Non capisco», ha detto ancora il giudice, «come nel mio caso si pretenda l’impunità». Sarebbe, l’impunità, non finire in galera per un articolo scritto da altri. Sarebbe, impunità, limitarsi a pagare per i propri errori – che ci sono stati – come succede in tutti i paesi civili d’Occidente.

Dopodiché possiamo anche ripetere per la millesima volta che la classe politica ha responsabilità spaventose, e così pure – se interessa – lo scrivente potrebbe puntualizzare che il commento a firma «Dreyfus» sarebbe stato orribile anche se fosse stato imperniato su una notizia vera. Ma qui parliamo d’altro, se non dispiace, così come ha parlato d’altro chi ha voluto puntualizzare a tutti i costi che Sallusti se l’è cercata («ha fatto di tutto per arrivare a questo epilogo») come ha fatto il solito Marco Travaglio, il giornalista cioè che il titolo «arrestateci tutti» lo fa praticamente tutti i giorni. E dire che in passato anche lui, dapprima, era stato condannato a pene detentive che poi sono state regolarmente convertite in pecuniarie, al solito: altrimenti sai che terremoto ci avrebbe montato. Travaglio fa il suo lavoro: doveva tornare a distinguersi dopo essersi mostrato troppo solidale con la categoria, anzi, con la «casta» dei giornalisti come l’ha chiamata anche il giudice Cocilovo sulla Stampa: questo perché a seguito della condanna, ha detto, «si chiama a raccolta l’intera categoria, s’incassa la solidarietà del Capo dello Stato – ha insistito – e si cerca la sponda del ministro della Giustizia, una campagna stampa allucinante». La casta. Allucinante. Che poi, a onor del vero, è la tesi sostenuta anche tanti cittadini, grillini o meno che siano. Parte di essi, nutrita a pane e antipolitica, va dicendo che la casta dei giornalisti vuole salvarsi mentre i cittadini normali non possono, cose così. L’ha scritto anche Travaglio, ovvio: «I giornalisti sono normali cittadini e, spesso, si finisce dentro anche per reati minori rispetto alla diffamazione». Ma non è vero. E’ il contrario: in galera per diffamazione semplice non ci finisce nessun cittadino, solo i giornalisti della carta stampata possono finirci; la loro diffamazione è «a mezzo stampa» e quindi è automaticamente «aggravata», mentre l’omesso controllo che spedirà dentro Sallusti, oltretutto, nel caso delle testate online e delle testate televisive non è neppure contemplato. Spiegatelo ai succitati, se potete. Senza beccare querele, se potete.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera