Protocollo Spikes per la specie umana?

Qualche settimana fa ho messo piede in uno spazio molto particolare. Un reparto di ospedale dedicato alle cure palliative. Cioè un luogo dove malati diagnosticati come «terminali», senza speranza di sopravvivere al male che li ha colpiti, vengono ricoverati all’interno di camere dalle pareti dipinte con colori tenui, quindi monitorati, assistiti, accompagnati alla morte con dignità, sostenuti con la massima cura e attenzione, non solo per ciò che si è, in quella particolare condizione che vede il malato irrimediabilmente fragile e dipendente, ma per ciò che si è stati, per la propria storia, nella convinzione non più strettamente medica, ma morale, esistenziale, che una vita andrebbe vissuta, dotata di senso e «significata», fino in fondo; è consigliato lasciare qualcosa al mondo, nel mondo, e bisogna altrettanto che chi ha conosciuto il morituro, la cerchia di persone con le quali il morituro ha vissuto, saluti il proprio caro, si dica tutto, e che nulla resti in sospeso. Questo è un po’ il senso delle cure palliative.

Il reparto è formato da un lungo corridoio. Ci vogliono sì e no trecento passi per attraversarlo da una parte all’altra. Alle pareti sono appesi i quadri che i pazienti hanno dipinto insieme alla volontaria di arteterapia. Ma esiste anche un musicoterapeuta che incoraggia famigliari e pazienti a formare delle piccole orchestre, suonando il bastone della pioggia o uno xilofono.
Tra una conversazione e l’altra con i pazienti, i famigliari e il personale medico (sono qui per lavoro, cioè per fare delle interviste, anche se mi rendo subito conto che non è il caso di fare delle «interviste», cioè formulare una domanda e registrare la risposta, ma ha senso solo entrare in relazione, il che può significare anche starsene zitti in un angolo e studiare lo svolgersi di un piccolo banchetto, improvvisato in una stanza, per festeggiare la laurea del figlio di una paziente), di colpo mi appare in testa un’immagine, una specie di vignetta sullo stile di quelle pubblicate dal New Yorker: la Terra, la palla del pianeta, è ospite in reparto, sdraiata a letto con il lenzuolo bianco che la copre per tre quarti, accanto al comodino dov’è appoggiato il pacchetto dei biscotti e una rivista. È un’immagine corretta, questa della Terra malata? O meglio: è una descrizione verosimile dello stato di salute della Terra, con i suoi milioni di chilometri quadrati a fuoco nelle regioni artiche, i 197 miliardi di tonnellate d’acqua che a luglio in Groenlandia sono passati dallo stato solido allo stato liquido e il ghiacciaio del Cervino in parziale fusione, tanto che il piccolo comune di Zermatt è stato di recente invaso da un torrente di fango e pietre (evento che oltre alla paura e ai danni ha creato un senso di perturbante irrealtà e sorpresa, visto che la piena si è scatenata all’improvviso, in una giornata di sole e cielo azzurro, come nel verso sfrenato di un poeta surrealista)?

Un capo di Stato deforestatore come Jair Bolsonaro parla di psicosi ambientalista. Dunque io stesso, nel momento in cui m’infliggo queste fantasie sulla Terra, potrei essere vittima di una psicosi ambientalista. In ogni caso l’immagine della Terra ricoverata in un letto di ospedale non è corretta. La biosfera non è ammalata, e forse – dico «forse» per cortesia verso il deforestatore Bolsonaro – si sta solo trasformando. È la specie umana che potrebbe non avere un destino facile nel quadro di questa rapida climalterazione. Ergo, cure palliative per la mia specie. Arteterapia? Musicoterapia? Drone music, ambient music. Anche il bordone sonoro, simile a una nenia prodotta dal ritmo rallentato e offuscato di una centrifuga, che accompagnava qualche giorno fa i primi dieci minuti di una bellissima coreografia di Alessandro Sciarroni, andata in scena alla Triennale di Milano, sembrava scritta per accompagnare il pubblico in un sonno profondo. Accettare l’estinzione.

Le cure palliative vengono precedute da un passaggio che fa parte del rapporto tra medico e paziente. In gergo lo chiamano «comunicazione delle cattive notizie». Come trasmettere, quindi, certe cattive notizie alla specie, senza precipitare nazioni e continenti nel panico? Per esempio applicando su larga scala il protocollo Spikes, che di solito prevede sei fasi:

1) Setting up (preparare il colloquio)
2) Perception (capire quanto il paziente sa)
3) Invitation (capire quanto il paziente desidera sapere ed essere informato)
4) Knowledge (condividere le informazioni con il paziente)
5) Emotions (identificare e comprendere le emozioni del paziente)
6) Strategy and summary (pianificare la strategia e riassumere i contenuti del colloquio).

Provo un sottile godimento nello scrivere queste righe e nel dichiarare l’uomo, per quanto possano valere le mie parole, malato terminale. Come non sperimentare, infatti, un brivido sadico nei confronti di un recidivo ed egoista, che non fa nulla per salvarsi la pelle e non pone a se stesso in modo forte e chiaro il tema della responsabilità verso i propri figli e le prossime generazioni?
Comunque, qualche sera fa ho visto un film. Raccontava una storia basata su un fatto di cronaca. Il fatto risale all’11 marzo 1984. Un peschereccio lascia il porto di una isoletta dell’arcipelago delle Westmann, a largo della costa meridionale dell’Islanda. È notte. Fa molto freddo. Il peschereccio ha un incidente, si rovescia su un fianco e sprofonda. Nel giro di minuti tutto l’equipaggio, cioè cinque persone, affoga o muore assiderato nelle acque gelide dell’Atlantico del nord. L’unico a galleggiare è il marinaio Gulli Fridthorsson. Nel buio della notte, Gulli comincia a parlare con un gabbiano: «Ti prego, piccolo gabbiano, avverti qualcuno che io sono qui in mezzo al mare, sotto le stelle, nelle acque gelide dell’Islanda, oppure guidami verso la costa, portami con te in salvo». Il gabbiano grida e dispiega le ali bianche. Gulli comincia a nuotare, una bracciata dopo l’altra, anche se in acqua la temperatura è circa sette gradi sotto lo zero. A volte rallenta e nuota placidamente a rana trascinato dai flutti. Dopo sei ore di traversata finalmente raggiunge la scogliera, sbattuto dalle onde contro le pietre nere e aguzze, nevica, e poi nel buio, tra le ombre bluastre di quello spaventoso paesaggio minerale, si arrampica sulla roccia lavica e tagliente, riesce a raggiungere una radura, in preda agli spasmi, a piedi sanguinanti e con i vestiti fradici, quindi raggiunge l’uscio di una casetta di legno. Bussa, apre un bambino, il bambino scambia Gulli per un vecchio ubriaco, tuttavia lo lascia entrare. Gulli stramazza sul pavimento. Vivo.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).