Problemi di religione

Siccome è venuta fuori una polemica ormai notoria per certe mie fortissime posizioni contro L’Islam (tutto l’Islam) da un lato sono stato sanzionato dall’Ordine dei Giornalisti, e questo lo sappiamo, dall’altra c’è diversa gente che in rete si è divertita a riprendere il mio articolo incriminato e a sostituire l’oggetto delle mie intolleranze con un’altra religione, come a dire: col cattolicesimo e con l’ebraismo non l’avresti mai fatto. Certo che no: mi sembra che l’Occidente in questa fase abbia un problema con l’Islam, non con altri.

Ma a parte questa ovvietà, a proposito di libertà di opinione, probabilmente costoro ignorano che io nel 2007 persi una collaborazione a un settimanale per un mio articolo ritenuto anti-cattolico e, l’anno dopo, persi un’altra collaborazione con un quotidiano per un articolo di non entusiastica adesione, diciamo così, alla politica di Israele. Il settimanale era Il Domenicale, una cosa culturale esistita dal 2002 al 2009 nel giro di Dell’Utri e del Giornale. Il quotidiano invece era Il Riformista nel periodo in cui lo dirigeva Antonio Polito. Ecco gli articoli.

Da Il Domenicale, luglio 2007, rubrica Contraltare:

Il bello è che poi diciamo a certi islamici: tu consideri la donna inferiore all’uomo, tu non rispetti la Costituzione. Questo perchè l’Islamico si ossequia letteralmente al Corano, laddove dice: “Ma gli uomini sono un gradino più in alto”. I cristiani, invece, almeno da noi, non si ossequiano alla Bibbia manco per niente, e sapete che vi dico? Meno male. Perchè la Chiesa cattolica è post-conciliare, la Bibbia no.

Genesi 3,16: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. Siracide 25,24: ” Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo”. Siracide 25,21: “Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo è una donna che mantiene il proprio uomo”. Siracide 25,26: “Se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza”. Corinti 14,34-35: “Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea”. Efesini 5,22-23: “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie”. Pietro 3,1: “Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa”. Timoteo 2,11-15: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia”.

Corinti 3,7-16: “L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. [… ] Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? “.

Da Il Riformista, giugno 2008, rubrica Destri:

Ora magari dovrei persino specificare che la mia è un’opinione molto personale, così da non confonderla con altre opinioni di un giornale che su certi temi ha una linea chiarissima. Dovrei far questo nonostante la paternità esclusiva della mia opinione sia persino ovvia: la sto scrivendo io, c’è il mio nome, c’è uno spazio gentilmente concessomi. Eppure è come se su certi temi ciò non dovesse bastare a me per primo, come se certi temi meritassero appunto un sovrappiù di premesse e pistolotti, come se di un’opinione, insomma, ci si dovesse scusare: è la prima cosa che non mi piace.

La seconda è la superficialità cui mi costringo: la mancanza di spazio e tempo, ossia, per un’analisi di cui mi limito ad abbozzare a dir tanto il titolo. Che è questo: l’aderenza acritica del mondo politico italiano nei confronti di Israele sta diventando imbarazzante. Non è neanche più una posizione politica o diplomatica: è un riflesso epidermico, è una forma che supera i contenuti e che ne prescinde, è l’aderire a una politica anzichè averne una.

Col tempo ho imparato che la regola del cui prodest, in questo Paese, domina qualsiasi facoltà di opinione, vista altrimenti come un esercizio sterile. E’ probabilmente il mio caso: dovrei capire che una posizione su Israele non permette sfumature (che io invece vedo, io di sfumature nel caso di Israele ne vedo sempre un sacco) e dovrei capire che il rischio è quello di accreditare l’antisionismo imbecille degli anti-imperialisti decerebrati, Ahmadinejad eccetera: e tutto può essere. Ma sono anche stanco, per colpa dell’opinione di Ahmadinejad, di dover rinunciare ad averne un’opinione mia: magari addirittura articolata. Sono stanco di fingere che personaggi come Riccardo Pacifici, per dire, uno che considero alla stregua di un fanatico, siano talvolta considerati dei seri interlocutori. Sono stanco che ogni discussione su Israele entro dieci parole  debba assumere una valenza meta-storica. Non ho trovato grottesca la candidatura di Fiamma Nirenstein al Parlamento italiano, ma trovo grottesca la maniera in cui si sta configurando il suo mandato: di fatto è la rappresentante di un Paese che non è quello che l’ha eletta. Trovo umiliante che lo spazio sconsiderato dedicato ai deliri di Ahmadinejad (un signore che non sta per invadere Israele nè sta per cancellare niente da nessuna mappa) abbia contribuito a non far uscire neppure una riga circa il diciannovesimo anniversario della strage di Tienanmen, la cui esistenza è ancor oggi negata dal regime cinese ma senza che la circostanza abbia impedito di stringere mani e presenziare a fondamentali convivi durante i vertici Fao. Ecco, ho scritto queste cose con tutta la sciatteria e superficialità che certi temi non meritano: cui prodest? A nessuno, a niente: forse solo all’onestà intellettuale di chi si arroga la facoltà di averne almeno una.

(rubrica successiva)

Devo per forza dire due paroline a Fiamma Nirenstein e e Furio Colombo. Le beghe tra giornalisti sono noiose per davvero, è per questo che ho atteso un po’ di tempo prima di scrivere qualcosa che tuttavia mi è semplicemente d’obbligo scrivere: per dignità personale e perchè altrimenti le parole non significherebbero davvero più nulla, potremmo dirci ormai qualsiasi cosa. Il liquidare una querelle come la milionesima bega tra giornalisti, oltretutto, può divenire anche una maniera di liquidare la discussione che l’ha originata, e non è giusto neanche questo.

Pistolotto a parte, la sostanza è che non sono disposto a farmi dare del fascista da Fiamma Nirenstein e del sostanziale antisemita da Furio Colombo: penso che se ne dovrebbero vergognare, e penso che il loro modo di ragionare sia culturalmente regredito e ricattatorio.

Riassunto. Sul Riformista del 5 giugno, nel mio piccolo, avevo tentato di azzardare addirittura un ragionamento: mi chiedevo perchè in Italia ogni posizione su Israele non potesse avere sfumature; mi dicevo stanco, per colpa dell’opinione di Ahmadinejad, di dover rinunciare ad averne una mia; mi dicevo stufo che ogni discussione su Israele, entro dieci parole, dovesse assumere per forza una valenza meta-storica. A proposito di Fiamma Nirenstein, che legittimamente scrive solo di Israele, vive in Israele, si occupa solo di Israele, avevo scritto questo: «Non ho trovato grottesca la candidatura di Fiamma Nirenstein al Parlamento italiano, ma trovo grottesca la maniera in cui si sta configurando il suo mandato: di fatto è la rappresentante di un Paese che non è quello che l’ha eletta». E questa si chiama critica: stupida o banale che sia. Mi bastava esprimerla, non chiedevo nulla. Fiamma Nirenstein tuttavia ha dapprima rifiutato di replicare sul quotidiano che gliel’aveva chiesto (e sul quale scriviamo entrambi) perchè «è una parlamentare», ha detto, dopodichè sul Riformista ha rilasciato un’intervistina la cui formula ha ritenuto evidentemente più consona e, dopo la premessa secondo la quale «ci ride su», si apprendena che «una cosa che però la impensierisce davvero» e cioè questa: «Gli argomenti del collega sono quelli che usavano i fascisti. Erano proprio i testi del Ventennio che descrivevano gli ebrei come infiltrati, emissari di una potenza straniera. Purtroppo è proprio a causa di argomenti così, usati con troppa leggerezza, che mi ritrovo a vivere sotto scorta».  Il che vuol dire: la mia critica è fascista, superficiale nonchè una concausa del fatto che vogliano presumibilmente ammazzare Fiamma Nirenstein.

Ecco: si può accettare una cosa del genere? Con quale leggerezza, con quale arroganza si possono dire cose del genere? Si può – e se lo chiede uno che certo non ci va piano – usare le parole in questo modo? E’ consentito l’essere esentati da eserciti altrui, guerre interiori o effettive altrui, rilasci sbrigativi di patenti non richieste?  Peraltro: non è proprio, questa, la dimostrazione dell’impossibilità di sfumature ogni volta che in Italia si parla d’Israele?

Poi è arrivato Furio Colombo. Sull’Unità dell’8 giugno, nel sermone scalfariano della domenica, ha sganciato: «E pensare che Filippo Facci era giunto a scrivere su Il Giornale che Fiamma Nirenstein non può parlare a nome dell’Italia sulla questione di Israele perché è ebrea». A parte che era il Riformista e non Il Giornale, ecco che cos’è diventato quel che volevo dire: è un’ebrea e deve stare zitta. E la gente legge.

Ecco, non avete neppure idea di quanto io non ci stia, a questo gioco. Ma non ricadrò nello stesso errore (storizzabile anche quello) di Fiamma Nirenstein: ossia la generalizzazione, laddove ogni generalizzazione suscita prima o poi risposta radicali e controproducenti. Seguito a stringere il mio diritto di critica, per ora, e lo ripeto: devono vergognarsi.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera