Perché aderisco a Italia Viva

Era il 25 settembre del 2012 quando annunciai con questo post le ragioni per cui, da vicepresidente del partito e primo (e a dire la verità anche unico) dirigente nazionale in assoluto, avrei appoggiato alle primarie non il vincitore apparente – il segretario nazionale, Pierluigi Bersani – ma il suo giovane e sfavorito sfidante, l’allora Sindaco di Firenze Matteo Renzi.

Le ragioni per cui presi quella decisione – abbastanza da kamikaze, diciamolo: o almeno la maggior parte dei miei compagni la considerò tale – era che Renzi prometteva una stagione di profonda discontinuità con il passato. Quello che mi fece decidere senza indugi di scegliere Renzi e non Bersani era che il secondo rappresentava la prosecuzione della linea di comando rappresentata dalla generazione che aveva visto o fatto il ‘68; Renzi aveva invece un programma di innovazione rivoluzionario.

Innovare i linguaggi e le forme della politica fino a trasfigurarli completamente, comprendere e governare (anziché ostacolare) le innovazioni che la società continuamente produce, scommettere sul meglio che il nostro Paese esprime, affermare l’idea che la migliore protezione dalle incertezze che il futuro riserva stia non nel ripararsi da esse ma nel cavalcare le opportunità che ogni cambiamento ineluttabilmente porta con sé.

La scelta fu semplice. Se da un lato si svolgevano i riti stanchi e lisi della vecchia politica, dal palco della Leopolda avevamo visto un futuro che si candidava entusiasticamente a diventare classe dirigente.

Quello che accadde è che, contro ogni previsione, soltanto un anno e mezzo dopo (era il 2014) Matteo Renzi era a furor di popolo Segretario del Partito Democratico e Presidente del Consiglio dei Ministri, e il PD otteneva il 41% dei voti alle elezioni europee. Date le premesse, il lettore che fosse andato in vacanza per i 5 anni successivi in un atollo del Pacifico potrebbe pensare a questo punto della storia che la rivoluzione renziana abbia in questo quinquennio (siamo nel 2019) prodotto i frutti che si riprometteva, ma purtroppo così non è stato, se non in parte.

La novità rivoluzionaria rappresentata dalla linea politica di Renzi è stata vissuta a lungo – non solo e non tanto al livello del Partito, ma anche nel dibattito pubblico – non come un salto evolutivo dalla sinistra covata nel nido asfittico ma rassicurante della guerra fredda a quella che era figlia delle speranze seguite alla caduta del Muro, ma più modestamente come una sorta di snaturamento del PD. Il mito per cui “Renzi è di destra” è stato il modo per dire che Renzi era, per quanto segretario eletto a furor di iscritti e di popolo, un corpo totalmente estraneo al Partito che dirigeva.

Il tema è che, al di là della persona di Matteo Renzi, il nostro partito e l’opinione pubblica hanno fatto una fatica tremenda ad adattarsi all’idea che un presidente del consiglio di sinistra potesse proporre soluzioni estranee alla cultura politica novecentesca della nostra parte politica. Passare da un’idea della società basata sulla contrapposizione tra classi sociali a un’idea di Paese dove le energie non sono utilizzate per contrapporsi in una dinamica a somma zero, ma per cooperare attivamente al benessere dell’intera collettività al fine di al migliorare le condizioni di vita di tutti, è stato considerato un passaggio politico indigeribile non solo a molti politici ma anche a giornalisti, commentatori e maîtres à penser.

Puoi fare una legge epocale come quella delle unioni civili, mettere dieci miliardi nelle buste paga degli italiani, combattere lo sfruttamento del lavoro nei campi, salvare quante più vite possibili (e recuperare cadaveri) nel Mediterraneo, rafforzare il mondo del volontariato, punire gli ecoreati, provare a pensare alle famiglie dove i figli adulti dipendono per ogni aspetto della vita dall’assistenza dei genitori, riconoscere per la prima volta diritti lavorativi alle partite iva, vietare le dimissioni in bianco, dare mezzi finanziari a sostegno della maternità, favorire gli acquisti in cultura dei ragazzi, investire miliardi sulle periferie e sarai comunque sempre “uno di destra” perché hai detto che non funziona più avere fianco a fianco lavoratori a pieni diritti e lavoratori senza diritti o che ci sono insegnanti bravi e insegnanti meno bravi e che non è giusto trattare entrambi allo stesso modo. Insomma, essere riformisti in Italia è un lavoro per gli amanti del pericolo.

Ora io credo che invece di riformismo ci sia un terribile bisogno. Soprattutto in un momento in cui la politica si polarizza, a destra come a sinistra, intorno a valori di bandiera molto riconoscibili e molto identitari, che puntano tutto sulla chiusura a difesa dell’esistente. Che fanno dunque quelli che invece pensano che la soluzione sia diametralmente opposta? L’unica in questa fase è provare a trovarsi degli spazi. A riaggregarsi intorno a parole e idee che in questo momento sono sacrificate. A parlare a un pezzo di società che in questo Parlamento pare essere sparita e non rappresentata.

Le cose che mi convincevano a stare con Renzi sette anni fa sono tutte ancora attuali e molte di esse ancora da mettere in pratica perché purtroppo una struttura partito così diversificata e composita come quella del PD, se utilizza la gran parte delle sue energie non per far sintesi ma a giocare d’interdizione per impedire al proprio leader di mettere in pratica il programma per il quale è stato eletto, finisce con il digerire e diluire ogni tentativo di cambiamento. Non è solo l’attacco sguaiato, che pure non è mai mancato, o il voto contrario al proprio stesso governo. È anche la ricerca continua di un punto di caduta che sopisca e tronchi ogni vero rinnovamento: nelle proposte, nel personale politico (in particolar modo sui territori, dove la politica è più vicina ai cittadini e dove il nuovo rappresentato da Renzi è raramente arrivato), e negli assetti organizzativi.

Per questo seguirò Matteo Renzi anche oggi, precisamente sette anni dopo quella prima volta. Aderisco a Italia Viva perché ho bisogno, perché c’è bisogno, di radicalità. Perché ho visto il programma di innovazione cui avevo aderito avvolto da una ragnatela e poi da un bozzolo che lo ha lentamente ma inesorabilmente depotenziato e neutralizzato. Perché per sedersi quotidianamente al tavolo per affrontare la più grande, difficile e insidiosa delle mediazioni – quella del governo del Paese con il M5S – e farlo efficacemente, affinché il governo di cui faccio parte operi con successo fino a fine legislatura, è necessario prima aver chiara la propria posizione e declinarla nel modo più limpido e definito possibile.

Vado via con la nostalgia pungente che si sente quando si lascia la casa dei genitori: una casa molto amata, abitata da persone molto amate. E la lascio con la stessa dolorosa consapevolezza che uscire di casa è l’unico modo per transitare all’età adulta. Non ci sono certezze, non ci sono garanzie, salvo sapere che alternativa non c’è. Perché per me è da questa partenza che dipende un futuro migliore per l’Italia.

Ivan Scalfarotto

Deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri. È stato sottosegretario alle riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento e successivamente al commercio internazionale. Ha fondato Parks, associazione tra imprese per il Diversity Management.