Paura

Ho due figli, P ha 14 anni e va in prima liceo, M ne ha 10 e va in prima media. L’altro giorno sono andati tutti e due in gita. Era un venerdì ed erano entrambi piuttosto eccitati. M è andata a teatro a vedere uno spettacolo intitolato xxxxx, che parlava di bullismo. È tornata a casa molto delusa, perché – ha detto – sono cose che ci hanno detto mille volte e, poi, soprattutto, era uno spettacolo brutto, scritto e recitato male. P lo hanno portato all’Istituto dei tumori, non proprio tra i malati terminali, in una sala conferenze, dove ha assistito a una lezione con video sui danni del fumo.

Ho fumato per trent’anni molte – molte – sigarette. Facendo un calcolo approssimativo ma non tanto, ho stimato che messe una sopra l’altra, le sigarette che ho fumato in vita mia, formerebbero un’unica lunghissima sigaretta che dalla Terra arriverebbe alla Luna. E se c’è una cosa che ho fatto in vita mia che giudico scema e di cui mi sono onestamente pentito è di avere fumato così tante sigarette. Sono entusiasta del fatto che la scuola informi gli studenti sui danni del fumo. Nella vita non ho mai fatto il bullo, né ho subito bulli, almeno da bambino. Sono d’accordo sul fatto che ragazzi di prima media siano adeguatamente istruiti sui meccanismi della violenza e della prepotenza di gruppo. Però mi ha fatto impressione.

Nella fattispecie, forse per una coincidenza, gli adulti non hanno scelto di mostrare ai ragazzi qualcosa di bello, ma di metterli in guardia da qualcosa di brutto. Le gite a scuola sono rare – sono sempre state rare e per questo per sempre saranno  speciali – e per tradizione sono sempre state associate alla gioia, alle cose belle e alla trasgressione, trattenuta e veicolata da un certo tranquillizzante squallore contenitivo, caso mai ci si esalti: si va in torpedone a Firenze cantando a squarciagola Battisti, Bennato, gli 883, Duran Duran, Madonna, Red Hot Chilli Peppers, e poi di notte si gioca a bottiglia e il giorno dopo tutti agli Uffizi. Oppure si va a teatro a vedere Franco Parenti che recita i Promessi sposi alla prova e si sghignazza trattenendo il fiato e tenendosi la pancia, come si può ridere solo al liceo, o Gabriele Lavia che fa Ibsen – «Mamma, Mammaaaaaa, dammi il sole! Dammi il sooòle»… «E daglielo ‘sto sole» –, oppure Vittorio Gassman che fa Macbeth o Mattia Sbragia che fa Raskolnikov o che ne so io. Il teatro dei burattini di Gianni e Cosetta Colla che mette in scena L’invasione degli orsi in Sicilia di Buzzati. Non è importante chi o cosa, è l’intenzione che conta – avrebbe detto Kant: trent’anni fa gli adulti sentivano di poter comunicare ai non adulti le cose belle che avevano imparato nel mondo, oggi – in genere, ovvio, non sempre – hanno una certa tendenza a comunicargli la loro (nostra) paura.

Quando qualcuno prova a parlare a M del rischio pedofilia su Internet o Whatsapp, si mette a urlare di noia. Sono anni che schiere di volenterose maestre, nonni, zie e genitori la mettono in guardia pieni di angoscia. Come abbiamo messo in guardia P dai rischi del bullismo, della nicotina e della droga, naturale o sintetica che sia. Mi ha detto che dopo Parigi molti sui amici si rifiutano di andare in Duomo o in metropolitana perché hanno paura degli attentati, ed è facile capire che è una paura da genitori che contagia i figli, che perfino in gita gli carichiamo in spalla le nostre paure. Anche se ci lamentiamo tanto, e scriviamo dei danni di telefonini e computer, e ripetiamo sempre ai ragazzi di smetterla, come un mantra, da una stanza all’altra, siamo uguali: vogliamo solo guardare il telefonino, che è sempre meglio e meno pericoloso del qui e ora. La verità è che in fondo ci sentiamo tutti più sicuri se rimangono a casa, a guardare youtube sul telefonino o a sparare alla Playstation, piuttosto che uscire e scrollarsi di dosso la nostra protettiva presenza.

Nessuna epoca è stata sicura come la nostra. Qualche giorno fa un  rapporto Unicef diceva: «In poco più di una generazione, il mondo ha dimezzato il tasso di mortalità infantile, e fatto iscrivere più del 90% dei bambini alla scuola primaria». In Occidente le cose sono andate ancora meglio: attentati e disgrazie capitano purtroppo, ma sono statisticamente irrilevanti e – come tali – scarsamente prevedibili. Eppure oggi, per molti adulti, me compreso – forse –, l’educazione coincide con una generale messa in guardia davanti ai pericoli della vita.

Ragazzi e ragazze incominciano ad andare a scuola da soli soltanto alle medie, spesso lottando, mentre i loro genitori, quelli con cui hanno dovuto combattere, da soli ci andavano già in prima elementare. Nessuna epoca è stata sicura come la nostra, ma in nessuna epoca gli adulti sono stati tanto terrorizzati da tutto. Li si porta in gita a vedere uno spettacolo sul bullismo e una lezione sul fumo che provoca il cancro, per condividere con loro la nostra angoscia e tranquillizzarsi, dopo avere cercato di terrorizzarli tranquilli noi. Il mondo intero sembra immerso in una universale paura. Prima c’erano cose da conquistare, oggi quasi soltanto pericoli da cui difendersi. La verità, forse, è che sentiamo di non avere più cose belle da insegnare. O forse non crediamo più che siano così belle e che servano davvero a qualcosa.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.