Parlare di giornalismo a Perugia

Sabato ho partecipato a un “panel” del Festival del Giornalismo di Perugia organizzato dalla Columbia Journalism Review. I miei colleghi erano americani, molto preparati e acuti sull’argomento. Altri contributi sono venuti dal dibattito con le persone presenti in sala. Queste le cose che mi sono appuntato.

Abbiamo parlato molto del rapporto che si costruisce tra i giornali – offline, online, eccetera – e i lettori, e di quanto in Italia questo rapporto sia coltivato proficuamente in casi più unici che rari (Internazionale e il Foglio, per me).
Poi abbiamo parlato della scarsa affidabilità dei media italiani, e questo è un tema su cui chi legge questo blog o la rubrica “Notizie che non lo erano” non ha bisogno di argomenti ulteriori.
Poi abbiamo parlato della scarsa disponibilità dei giornalisti ad accettare correzioni, integrazioni e consigli sul loro lavoro, e quanta insicurezza di sé rivela l’assenza in Italia di una rubrica “Corrections” o la latitanza di ogni forma di revisione degli errori fatti. D’altro canto è anche vero che la rete ha offerto a una comunità di capricciosi troll in perenne competizione col mondo l’occasione di sfinire con saccenti obiezioni ogni articolo che venga pubblicato.

Mark Glaser di Mediashift ha notato che le tre questioni sono in stretta relazione: chi scrive con buoni standard di correttezza e verifica, e sa stabilire un rapporto complice e sincero con i propri lettori, avrà lettori più indulgenti, complici e costruttivi. Chi si arrocca, se ne frega, pensa di essere indiscutibile, e fa le prime pagine con i comunicati stampa o le bufale o i virgolettati inventati, si becca i matti e i troll.

Lo stesso Glaser ha ricordato la regola di non pubblicare mai niente di cui ci sia solo una fonte. “Never trust anything you see once”.

Un inviato della BBC in Italia di cui ho perduto il nome (chiedo scusa) ha poi raccontato della sua meraviglia per il “sarebbe journalism”, ovvero quell’attitudine del giornalismo italiano di dare le notizie al condizionale, piuttosto che dare notizie vere o non darle. La definizione è efficace e ha avuto molto successo in sala, ma io ho l’impressione che formule simili si usino in determinati casi anche nel giornalismo anglosassone. Fermo restando che è indubitabile l’inclinazione dei giornali italiani a mettere negli articoli voci, illazioni, cose non verificate o addirittura implausibili.

Megan Garber della Columbia Journalism Review ha poi detto una cosa molto bella sull’uso o meno dei links esterni all’interno degli articoli online: “Un link è una cosa che dice «Mi interessa più informarti che tenerti sulla mia pagina»”

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).