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  • Martedì 8 luglio 2014

Ode allo sdegno

Orange is the New Black

 

Allora, stai lavorando a qualcosa, adesso?
Si, sai…voglio dire…sto valutando alcune opzioni. Sto cercando di capire cosa fare.
Oh, è fantastico. Sai, sono così stanca di andare ad appuntamenti e dover ascoltare uomini parlare senza sosta di come trasformano i loro feed di twitter in blog, i blog in libri e i libri in twitter. È estenuante. Smettila di fingere che il podcast sia un lavoro, giusto?
Giusto.
È solo che è così rilassante sapere che tu non stia facendo niente. Un uomo senza ambizioni è assolutamente in cima alla mia lista al momento.

Questa scena passa quasi inosservata nella serie che sto guardando, apparentemente innocua tra orgasmi multipli tra carcerate, stalker psicopatiche e vecchie capo ghetto che cercano di riportare il sano ordine razziale degli anni Ottanta. Cose da Orange is the New Black. Però mi torna quella scena. Lui, beve grandi sorsate di birra spostando gli occhi dal fondo del boccale a un posto imprecisato fuori campo. Lei lo assilla di informazioni. È pratica dice, vuole passare ai fatti. Quando la scena finisce vorresti bere anche tu litri di birra e tirare freccette contro lo schermo in direzione di questa nuova versione di femmina indipendente. E lo dico da femmina perfettamente conscia di essere raggirata dagli sceneggiatori nell’arrivare a empatizzare così tanto con il ragazzo buonista ebreo. Bravi, sceneggiatori. Ma non dura all’infinito, prima o poi il senso critico torna e ricordando le parole di questo personaggio destinato a sparire, ci leggo dentro una poesia incredibile. La non praticità più assoluta.

Sarà che poi, diciamo quella stessa notte, ma forse anche una o due prima o dopo, ho incontrato Emanuele Trevi, che raccontava di Bukowski, che raccontava di John Fante, che raccontava di Faulkner. E il succo era la vergogna e il rimorso provati da Fante per aver continuato a lavorare nel mondo del cinema, quando avrebbe potuto fare come Faulkner che, quando lavorava a Hollywood, a fine pomeriggio era “troppo sbronzo per tenersi in piedi” , così che poi se ne era andato a fare lo scrittore vero.

Mi immagino Fante, quasi cieco e rovinato dal diabete, le gambe amputate, con la mente agli anni Trenta, quando senza rendersene conto aveva scelto di diventare ricco e borghese per poi pentirsene per tutta la vita, nonostante i capolavori pubblicati. L’ideale di purezza così chiaro e definito, antropomorfizzato in un giovane Faulkner che puzza di Whiskey.

Mi commuove questa immagine dentro l’immagine. Mi commuove e al contempo non riesco a non associarla al dialogo di OITNB. Una volta c’era l’arte per l’arte e c’era chi campava con espedienti e, se gli riusciva, faceva arte la notte. Entrambe le scuole hanno portato ottimi risultati. Ed entrambe le scuole avevano un alone di eccentricità, lì nasceva il mito. E io mi sento privata di qualcosa di irreparabile, proprio a causa di quello che dice la giovane donna della serie TV.

Ci hanno portato via i miti, i sogni, e questo ok. Sarei stucchevole a voler, chessò, sognare. Ma lo sdegno, il diritto di storcere il naso e fare boccacce davanti a ciò che rovina l’arte, questo sì che mi infastidisce. Stage non pagati, esperienze lavorative, freelancing, che lo si chiami come si voglia, l’importante però é proprio non storcere il naso. Sorridere, ma non troppo, to play cool. E poi tutto il resto che racconta benissimo questo articolo sul self branding.

Certo, resta sempre l’altra scuola in cui inserirsi, quella che ha tirato su un J. D. Salinger che lavorava sulle navi da crociera; Steinbeck che raccoglieva frutta e faceva il muratore al Madison Square Garden; Vonnegut che gestiva una concessionaria Saab; Burroughs che disinfestava case. Ok, Jack London era un pirata di ostriche e vince su tutti.  Ma il punto, quello che mi sfugge, è dove sta, adesso, lo sdegno.

Quando Faulkner si è licenziato dal servizio postale in cui lavorava, ha scritto al suo capo “Finché vivrò nel sistema capitalista, so che la mia vita sarà influenzata dalle richieste di persone facoltose. Ma io sia dannato se mi propongo di stare agli ordini di ogni furfante itinerante che ha due centesimi da investire in un francobollo.
Queste, signori, sono le mie dimissioni.”

Ecco, mi chiedo, sappiamo ancora mandare a stendere un datore di lavoro perché ci impedisce di lavorare su quello cui teniamo? E conteggiando twitter, e i blog, e tutto ciò da cui siamo partiti, siamo ancora in grado di disgustarci di noi stessi in modo sano e genuino, non solo per una momentanea update di status? E vorrei mettere agli atti che sono iscritta a tutti i social e li uso, come tutti, e ho uno smartphone che non rinnego.

Carver, ad esempio, lo sapeva. Avrebbe dominato su twitter, ma dubito che ci avrebbe perso molto tempo, perché lo aveva capito che lo sdegno per se stessi è forse quello che salva uno scrittore, molto più che l’egocentrismo e l’autoreferenzialità. Non è una questione di media, ma di contenuto. Perché il mondo non è “dotato di senso” e tende spesso a “sgretolarsi”, nonostante la nostra “certezza che se avessimo lavorato sodo e cercato di fare le cose giuste, le cose giuste sarebbero accadute.” E non riusciamo infilarci senso a forza di click e di tweet. Forse non resta che imbarcarsi su una nave, o servire ai tavoli, insegnare in una scuola. Io, del resto ho deciso, dove si manda un’application per fare il pirata di ostriche?

– Giulia Grimaldi –

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.