Non si salva nessuno

Stavolta non si salva nessuno.

Il Pd, in ogni sua componente, prende una botta mortale. Passa la mano nella partita per il Quirinale (figuriamoci in quella per il governo). Deve sperare che altre forze, più responsabili e solide, si facciano carico di offrire una soluzione alla quale non diciamo tutti ma almeno una buona maggioranza di parlamentari democratici possano aderire, contribuendo a dare al paese un capo dello stato degno. Anna Maria Cancellieri lo sarebbe, ma non solo lei.
In due giorni gli eletti sotto il simbolo del Pd hanno prima fatto fuori un leader storico del movimento dei lavoratori ed ex presidente del senato. Poi addirittura il fondatore dell’Ulivo, due volte premier dopo aver sconfitto Berlusconi, ex presidente della commissione europea: uno degli italiani più conosciuti e apprezzati nel mondo, che non parlava dei franchi tiratori quando ieri sera ha chiesto di «assumersi la responsabilità» per quanto gli era successo.

Il Pd non merita di fare altri nomi per il Quirinale, oltre tutto dubito che ne troverebbe di disponibili.
Chi in queste ore strologa su D’Alema candidato non sa di che cosa parla. E anche l’ipotesi che affascina tanti democratici, fuori e dentro Montecitorio, cioè quella di spostare a sinistra l’intero asse politico eleggendo Stefano Rodotà, al di là delle opinioni appare irrealizzabile: il Pd – concetto paradossale – non potrebbe garantire a M5S i voti sufficienti.

Il dramma di questo suicidio è che si consuma senza scenari alternativi. Ci eravamo illusi ieri pensando che grazie a Prodi si potesse ricostruire qualcosa sulle macerie degli ultimi due mesi.

Siamo andati avanti per molto tempo sul dualismo tra Bersani e Renzi. Che ieri si è risolto nel peggiore dei modi, perché il segretario e il suo sfidante sono accomunati nella colpa di aver esposto Romano Prodi a una figuraccia internazionale. E se Bersani era già un capo dimezzato prima delle dimissioni drammaticamente preannunciate al Capranica, ora è azzoppato anche il suo successore: ha fallito la prima prova di leadership, s’è immaginato king-maker e ha perduto anche lui.

Rosy Bindi ha provato a tirarsi fuori dalla catarsi dimettendosi per prima. Ma è chiaro che la responsabilità, pro quota secondo incarichi e pesi, è collettiva. Se è vero che la notizia delle dimissioni di Bersani è stata salutata dall’assemblea dei gruppi con un applauso, sarà bene ricordare che in nessun organismo dirigente dal 25 febbraio a oggi s’è ascoltata una critica alla linea proposta dal segretario.

Quanto a quei parlamentari spuntati fuori dal nulla grazie a un’invenzione di primarie che dovevano salvare il Pd dall’antipolitica e invece l’hanno fatto diventare un soggetto dell’antipolitica: io non so quale disegno avessero in mente ieri costoro votando contro Prodi. Sospetto che non ci fosse un piano particolarmente studiato, forse ce n’erano due o tre tutti molto approssimativi. Per usare l’espressione di Bersani, ci sarà stato chi «ha tradito» per Rodotà (quelli che vogliono ponti coi grillini) e chi per D’Alema (all’opposto, in nome delle larghe intese), chi solo per antipatia verso il Professore, chi per dispetto al segretario. Probabilmente neanche pensavano di provocare un simile disastro, essendo oltre tutto molti di loro più o meno neofiti.

Certo non avranno nessuno di questi risultati. Intanto, hanno sgorbiato se stessi per sempre.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.