Non è colpa dell’Occidente

In queste settimane si è sentito affermare di tutto, soprattutto in Italia, a proposito del ruolo e delle responsabilità della NATO nell’esplodere della crisi ucraina. La tesi più diffusa (sostenuta dal movimento pacifista, dalla CGIL, dalla dirigenza dell’ANPI, da storici dell’antichità, scienziati equidistanti, ex diplomatici e geopolitici più realisti del re) è che la Russia abbia invaso l’Ucraina perché la NATO si era avvicinata troppo ai suoi confini mettendone in pericolo la sicurezza di un tempo. Lo afferma anche Putin, anche se le sue motivazioni (espresse chiaramente nel discorso del 21 febbraio, alla vigilia dell’invasione) hanno sapore non solo difensivo ma anche neoimperiale: questi paesi (Ucraina, stati baltici, Bielorussia, Georgia, persino Polonia) debbono “tornare nella sfera di influenza russa”. Tutto questo spiega in parte, lo scatenamento di una guerra di aggressione devastante, mal preparata e condotta, che non potrà mai essere veramente vinta. Ma la questione della NATO va considerata anche dall’altro punto di vista.

Non posso non pensare allo storico del medioevo Bronisław Geremek (Benjamin Lewertów,1932-2008) che è stato uno degli intellettuali e oppositori più importanti della Polonia. Dal 1997 al 2000 fu Ministro degli Esteri e si batté con tutte le sue energie affinché, il 12 marzo 1999, la Polonia venisse ammessa nella NATO (mentre l’ingresso nell’Unione europea avvenne successivamente, il 1º maggio 2004). Avendo avuto la fortuna di averlo avuto come professore, e amico, ci sentivamo spesso. Quando il 14 marzo del 2000 gli fu conferito il titolo di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana, ci incontrammo a Roma e facemmo una lunga passeggiata. Conoscendo le mie idee piuttosto tiepide verso la NATO, mi disse: “Se noi e gli altri paesi dell’Est non entriamo nell’alleanza di difesa atlantica, la Russia nel giro di dieci anni ci riprende, con la forza, tutti”. Per lui la NATO era la garanzia di poter stare in Europa: che questo fatto, al quale i polacchi e gli altri paesi dell’Europa centrale avevano aspirato per molti anni, non venisse più messo in discussione dalla Russia. Che l’Europa centrale e dell’Est non venisse di nuovo sequestrata, come scrisse Milan Kundera (Un occidente sequestrato ovvero la tragedia dell’Europa centrale, in: “Nuovi Argomenti”, n. 9, 1984).

Quell’Europa familiare descritta così bene, nel 1959, dal poeta esule polacco Czesław Miłosz (La mia Europa, Adelphi 1985), secondo Geremek era una grande opportunità per la Polonia, come l’allargamento a Est lo era per tutta l’Europa. All’Europa Geremek credeva molto: voleva che si “facessero gli europei”; si superassero le divisioni in due tra l’Est e l’Ovest del continente (quella cortina di ferro che sta ancora nelle teste di molti); lavorava per consolidare l’Europa politica. Ragionava con passione convinta, ma aveva modi di pensare da storico. Pensava sui tempi lunghi, argomentava sui processi profondi, e rifletteva per quanto possibile in un’ottica comparativa capace di abbracciare l’intero continente europeo.

Poiché aveva studiato la società medievale dal basso (assai importanti sono i suoi libri e studi sui poveri, i vagabondi, i mendicanti…) sperava ardentemente che nel costruire una sempre maggiore unità non si dimenticasse l’Europa sociale, ovvero le genti e i popoli. Riteneva che gli europei avessero bisogno di simboli vivi della loro identità. Simboli proiettati in avanti, non per forza indietro. Per esempio aveva proposto a più riprese che gli atti europei (elezioni del parlamento europeo, referendum sui trattati) si svolgessero contemporaneamente, nello stesso momento in tutta Europa e non in date differenti nei diversi paesi. Allo stesso modo chiedeva la nascita di centri di eccellenza europei (una università europea, un MIT europeo). Tutto questo aveva bisogno di essere protetto e difeso, nel caso anche militarmente. Da politico esperto, che da bambino era stato portato fuori miracolosamente dal Ghetto di Varsavia e aveva sofferto il carcere comunista, per Geremek ciò era ovvio.

Oggi che l’Ucraina, che non è mai entrata nella NATO, né aveva ufficialmente chiesto di entrarvi, è stata invasa dalla Russia, che si era già ripresa la Crimea e, con l’aiuto di irregolari, aveva creato due regioni “autonome” nel Donbass, le parole di Geremek mi paiono quanto mai profetiche. La Russia vuole riprendere il controllo dei paesi che le erano appartenuti “prima della catastrofe del crollo dell’Unione sovietica” o che stavano sotto la sua “sfera di influenza”. Però, riprendersi la Polonia e i paesi baltici, che fanno parte della NATO, sarebbe ancor più difficile e rischioso per la Russia.

Il ricatto nucleare che Putin continua a sbandierare è un azzardo che, prima o poi, gli occidentali saranno costretti a smascherare. Altrimenti la deterrenza diventa impotenza, e la Russia potrà continuare impunita la sua politica di espansione. Essendo uno stato totalitario, la dirigenza russa può permettersi di minacciare di scatenare una terza guerra mondiale nucleare, sapendo che i paesi democratici hanno molte più difficoltà anche soltanto a immaginare di poter prendere una decisione simile. Ma i dirigenti russi non sono pazzi: sanno benissimo (e non vogliono certamente sperimentarlo) che un conflitto nucleare, seppur limitato, non avrebbe nessun vincitore e soltanto un’immane, reciproca, distruzione.

Ci siamo andati molto vicini, per un errore, alcuni anni fa e proprio grazie al buon senso e al coraggio di un militare sovietico ciò non è accaduto: l’ufficiale addetto alla sorveglianza missilistica Stanisláv Evgráfovič Petróv che, il 26 settembre 1983, non credette al falso allarme del computer e non premette il pulsante dei missili che avrebbe potuto scatenare una guerra atomica. Nonostante si fosse poi riconosciuto l’errore Petróv fu considerato un disubbidiente e degradato.
Ovviamente “terza guerra mondiale”, con il coinvolgimento di Russia e Stati Uniti e i loro rispettivi alleati, non significa necessariamente conflitto atomico. L’arsenale delle grandi potenze è così esageratamente e dannosamente grande, variegato e sofisticato da poter avere effetti distruttivi devastanti anche senza lo strascico mortifero delle radiazioni.

A proposito dei rapporti tra Russia e Ucraina, mi pare si sia dimenticato che nel 1994, tre anni dopo l’indipendenza dell’Ucraina, fu firmato il “Memorandum di Budapest”: la Russia, gli Stati Uniti e il Regno Unito garantirono l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio del trasferimento alla Russia dell’arsenale nucleare post-sovietico situato in Ucraina. Essa consegnò alla Federazione Russa le armi nucleari schierate sul suo territorio. In cambio, l’Ucraina doveva ricevere garanzie di sicurezza, inviolabilità delle frontiere e integrità territoriale. L’intenzione dell’Occidente, nel 1994, era di riaffermare gli obblighi che già derivavano dai principi universali e dalle norme del diritto internazionale precedentemente accettate, in particolare la Carta delle Nazioni Unite (San Francisco 1945), così come l’Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Helsinki 1975). Nel caso dell’Ucraina, si trattava di adattare questi principi generali alla situazione specifica che si era creata dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tre ex repubbliche (Ucraina, Kazakistan e Bielorussia), diventate indipendenti in quel periodo, avevano armi nucleari sul loro territorio. Il Kazakistan e la Bielorussia vi rinunciarono senza discutere. L’Ucraina, invece, che aveva il maggior numero di testate, chiese garanzie supplementari e le ottenne. Prima a Mosca, il 15 gennaio 1991, la Russia e gli Stati Uniti elaborarono e firmarono tali garanzie con l’Ucraina. Poi, nel dicembre 1994, a Budapest, sotto gli auspici dell’OSCE, anche il Regno Unito firmò il memorandum seguita anche dalle altre due potenze nucleari (Francia e Cina). Il memorandum è stato registrato come documento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (doc.S/1994/1399, 19 dicembre 1994). Non è servito a niente.

Se l’Ucraina fosse stata sotto l’ombrello difensivo della NATO, invaderla sarebbe stato molto più rischioso e quindi sconsigliabile. Che la Russia invada un grande e orgoglioso paese come l’Ucraina perché “costretta a difendersi dalle minacce dei missili NATO e mettere al sicuro la minoranza russofona” (oltre che per “denazificarla”), è una tesi insostenibile: con i sistemi di difesa che esistono oggi ( i cosiddetti “scudi spaziali”) nessun missile nemico ai confini può costituire una minaccia di aggressione per una grande potenza (anche Israele convive da anni con missili a pochi chilometri dai suoi confini che non appena si alzano in volo vengono intercettati e abbattuti).

Anche alcuni studiosi statunitensi, come l’esperto di Russia George Kennan e il politologo realista John J. Mearsheimer, hanno sostenuto che è stato un errore strategico l’espansione verso Est della NATO, e quindi una buona parte della colpa di ciò a cui stiamo assistendo deve essere attribuita agli Stati Uniti. Ma l’odierno espansionismo russo non è una novità, ha risposto loro l’esperto di Stalin, David Remnick (The Weakness of the Despot, in: “The New Yorker”, 11/03/2022). La politica di Putin non è una sorpresa. È coerente con un modello storico di imperialismo russo. Per mezzo millennio, la politica estera russa è stata caratterizzata da ambizioni che hanno superato le capacità del paese: “A partire dal regno di Ivan il Terribile nel XVI secolo, la Russia è riuscita a espandersi a un ritmo medio di quaranta miglia quadrate al giorno per centinaia di anni, fino a coprire un sesto della massa terrestre. L’ascesa russa ha avuto tre momenti: il primo durante il regno di Pietro il Grande, poi la vittoria di Alessandro I su Napoleone e infine la vittoria di Stalin su Hitler. Gia nel diciannovesimo secolo, la Russia aveva questo aspetto: aveva un autocrate; aveva la repressione; aveva il militarismo; aveva il sospetto degli stranieri e dell’Occidente. Questa è la Russia che conosciamo, e non è una Russia che è arrivata ieri o negli anni novanta. Non è una risposta alle azioni dell’Occidente. Ci sono processi interni in Russia che spiegano dove siamo oggi”.

Non credo che incolpare l’Occidente sia l’analisi giusta per capire la drammatica situazione nella quale siamo. L’Occidente è un insieme di istituzioni e di valori, non è un luogo geografico. La Russia è europea, ma non occidentale. Il Giappone è occidentale, ma non europeo. “Occidentale” significa stato di diritto, democrazia, proprietà privata, mercati aperti, rispetto per l’individuo, diversità, pluralismo di opinioni, e tutte le altre libertà di cui godiamo, che a volte diamo per scontate. A volte dimentichiamo da dove vengono. Ma l’Occidente è questo. Come ha sostenuto l’ ex ministro degli Esteri polacco (nel governo di Marek Belka, 2004-2005) e membro del consiglio consultivo del segretario dell’ONU per il disarmo (ABDM), Adam Daniel Rotfeld (Due mondi in collisione, in: “Gazeta Wyborcia”, 5-6/03/2022): “Quell’Occidente, che abbiamo espanso negli anni Novanta attraverso l’espansione dell’Unione Europea (e della NATO), è rinato ora, e ha tenuto testa a Vladimir Putin in un modo che né lui né Xi Jinping si aspettavano. Se si supponeva che l’Occidente si sarebbe piegato, perché era in declino ed era scappato dall’Afghanistan; se si supponeva che il popolo ucraino non fosse reale, non fosse una nazione; se si supponeva che Zelensky fosse solo un attore televisivo, un comico, un ebreo russofono dell’Ucraina orientale: se si supponeva tutto questo, allora forse si pensava di poter prendere Kyiv in due o quattro giorni. Ma queste supposizioni erano sbagliate”.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).