Noi della questione meridionale

Sto percorrendo una strada. Ci sono altre (tante) persone attorno a me, ma i rumori dei passi sono ovattati, e lo è anche il vociare. Forse ho un pallone a elio legato al polso, forse. È domenica, 2 dicembre 1973, le macchine non possono circolare: è la prima domenica di austerity, c’è silenzio, e infatti ho sentito – nettamente e per due volte – la sirena del treno. Mi volto indietro, ci sono i miei genitori. Sembrano felici, forse. Per lo meno i loro gesti quotidiani mi rassicurano. Abbiamo una casa di 120 mq con giardino condominiale e un mutuo, una Opel Ascona A 1.6 (146 km di velocità massima) presa a rate, quest’anno andremo in Calabria per le vacanze. Ho 7 anni e quindi no: non posso avere il pallone a elio legato al polso, forse confondo i ricordi. Fatto sta che provo una sensazione di leggerezza: sono a Caserta, nonostante l’austerità io e la mia famiglia ci sentiamo forti, e si sentono forti anche quelli attorno a me. Ho antenati contadini: da generazioni e generazioni hanno visto solo montagne, vallate e vacche, mio padre e mia madre sono i primi ad aver studiato, i miei parenti sono emigrati tra l’America e l’Inghilterra.

Ma in fondo, tutti quelli attorno a me, lungo questa strada, in questa domenica particolare, hanno la stessa mia storia, e non per niente abitiamo nelle stesso quartiere (ceto medio con qualche mania di grandezza appena esibita), non per niente ci sentiamo membri di un club – quello del Sud – e siamo orgogliosi. E nonostante la crisi petrolifera il Nord e Milano non ci sembrano poi così lontani: possiamo raggiungerli, qualcuno del club l’ha già fatto.

Sono gli anni ’70 e nonostante tutto, nessuno su questa strada ora sottoscriverebbe  le parole di Carlo Levi: «che cosa fare dunque nelle presenti condizioni? Niente – diceva Orlando con la sua profonda tristezza meridionale (…) cosa speri? Niente. Cosa si può fare? Niente e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo». Noi invece, al contrario di Orlando – del Cristo si è fermato a Eboli – speriamo. Stiamo guadagnando. Abbiamo sì il mutuo e le rate, ma anche le berline, le cucine nuove, i bagni piastrellati, i frigoriferi e i giardini condominiali. Più un mese di vacanza in Calabria.

Mio padre ha anche preso l’aereo ed è il primo nella sua famiglia (i parenti emigrati per l’Inghilterra sono partiti in treno), anche perché, quelli – i suoi parenti – per secoli hanno visto solo montagne, vallate e vacche, e ora invece: se Milano è vicino all’Europa, Caserta è vicino a Milano e dunque speriamo. Anche lungo questa strada deserta, soprattutto in questa prima domenica di austerità.

Sono sulla stessa strada, via Ceccano, entrata secondaria del (mio) liceo scientifico Armando Diaz. È agosto 2015, molti anni dopo, di passaggio vado a trovare i miei, in via E. Rossi 18.
Fa caldo, una sensazione di pesantezza, tipica della sconfitta, i miei sono invecchiati. Anche io lo sono, e anche tutti quelli che camminavano lungo questa strada, e li rivedo ora: strano, non sono andati in vacanza, sperano poco, sono rimasti indietro. No – meglio – sono rimasti dov’erano negli anni ’70, sono i loro figli a indietreggiare. Eppure hanno studiato, si sono dati da fare. E niente: siamo tutti qui, al caldo, lungo questa strada, in crocicchi improvvisati, a recriminare il mancato aggancio. La colpa è degli altri, “c’hanno fatto lo sgambetto”, così diciamo.

La discussione sulla questione meridionale va avanti da tempo, e da tempo – da quando ero adolescente – ho partecipato con veemenza, spesso in assemblee improvvisate. La prima ipotesi attribuisce la colpa all’unificazione, e dunque ai piemontesi. Avevamo ferrovie e industrie e terra felix poi il disastro. Questa ipotesi è di stampo reazionario ed è portata avanti dai neoborbonici, sia di nuovo che di vecchio conio.

La seconda ha una matrice terzomondista, il Nord avrebbe colonizzato il Sud, o meglio: l’origine dei mali del Sud (e dei Sud) va rintracciata nelle relazioni di scambio internazionali che portano i paesi arretrati a specializzarsi in esportazioni a basso valore aggiunto (materie prime) per sostenere lo sviluppo del Nord: non solo merci ma anche movimento di persone, sfruttamento della monodopera. In Italia gli spunti per questa ipotesi li ha forniti Gramsci: «a borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le Isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento».

Poi c’è l’ipotesi geografica che però di volta in volta assume tratti diversi: o la geografia ci penalizza, lontani dai commerci, terra amara e poco fertile, oppure al contrario, la geografia ci aiuta, anzi, al Sud si vive meglio, tanto mare e sole, tanta lentezza e spazio per godersi la vita al riparto dalla nevrosi. Quest’ultima ramificazione deriva in massima parte da una cattiva lettura di Camus, insomma il pensiero meridiano (quello della misura, di stampo greco) che tuttavia Camus – in “L’uomo in rivolta” – usava per difendere la democrazia partecipativa in opposizione alle palingenesi rivoluzionarie.

Avendo dunque partecipato alle discussioni e assecondato negli anni, a secondo degli stati d’animo o delle convinzioni del momento, almeno due ipotesi (mai quella neo borbonica), posso dire che tutte e tre le ipotesi rivendicano uno statuto di eccezionalità (o di specialità) del Sud. Prima eravamo speciali e poi, per colpa degli altri, siamo diventati handicappati e dunque speciali in modo diverso.
Quindi gli altri – i responsabili – devono ripagare il danno adottando un regime di gestione straordinaria, del resto con quelli fatti con lo stampino speciale non si può mica ragionare con modelli ordinari.

Insomma, il nemico era sempre fuori casa, pronto a fregarci, e per difenderci avevamo il diritto di usare stratagemmi vari, oppure abbandonare la corsa, che poi è causa di nevrosi e alienazioni di varia natura e rivendicare – sempre in nome dello statuto dell’eccezionalità – la nostra diversità.

Sono sicuro: in tanti, come me, avranno fatto esperienze delle due strade: quella percorsa nel ventennio 50/70 e quella attuale. La prima sembrava rassicurarci, ce la potevamo fare, anzi: se diamo retta ad alcuni indici – scolarità, aspettativa di vita, aumento dell’altezza – noi del Sud ce l’avevamo (quasi) fatta. Se vogliamo poi considerare i divari regionali del reddito dall’Unità a oggi, per macroaree (Nord-ovest, Nord est e Centro, Mezzogiorno): il 1951 è il momento di massimo distacco tra Nord Ovest, Nord Est e Mezzogiorno, e il 1971 quello di massima vicinanza.  Difatti due anni più tardi, quando avevo sette anni appena, potevo camminare per strade fredde (era una fredda domenica quella del 2 dicembre 1973) ma con la sensazione di essere circondato da gente piena di speranza.
Allora perché ora dopo 40 anni ne percorriamo un’altra, triste e piena di recriminazioni?

Dunque approfittando della stasi, si spera non lunga, si potrebbe riassumere lo stato dell’arte. Seguendo il libro di Emanuele Felice, perché il Sud è rimasto indietro (il Mulino): in questi ultimi dieci anni sono stati elaborati nuovi dati – interessantissimi – e indicatori economici, tutti con una metodologia più rigorosa che tiene conto di procedure adottate in ambito internazionale.

A Caserta, a 18 anni, le prime discussioni, spesso di sabato o domenica sera, sulla questione meridionale erano occupate dai neoborbonici: i savoiardi c’hanno rovinato. La principale linea di tendenza a sostegno della tesi era quella di nobilitare le ferrovie e le seterie (qui i neo borbonici giocavano in casa, a parte la Reggia Vanvitelliana a pochi passi da casa mia, la seterie erano a San Leucio: 10 minuti in motorino, almeno questo era il mio record su strada).

Qualcuno vantava anche l’esistenza di una rete stradale superiore per lunghezza a quelle del Nord. Ma qui di solito interveniva uno che spiegava che sì era vero, ma solo a causa della natura impervia del territorio: dovevi, per raggiungere due centri, seguire una linea stradale ondulata che aggirasse gli ostacoli.
Ma erano solo sentimenti casertani da sabato sera, umori e aggettivi che si amplificavano senza tenere conto dei numeri.

Emanuele Felice, invece, riassume – e integra – quattro indicatori: a) disponibilità di strade e ferrovie; b) presenza di banche, dunque di un sistema creditizio; c) istruzione; d) reddito.
Sono le condizioni – assieme alla qualità delle istituzioni, ma questa può derivare dagli indicatori sopracitati –  necessarie allo sviluppo.

Per le ferrovie (quanto fiato sprecato in quelle discussioni): i Borboni avevano costruito la prima linea, Napoli/Portici (1839) e lunga 7 chilometri, poi prolungata, negli anni seguenti, fino a Castellamare e Pompei. Perché fu costruita? Perché nel 1738 Carlo III di Borbone – il più illuminato, stando a Benedetto Croce – aveva deciso di edificare la sua residenza estiva a Portici, ora sede di Agraria.  E con una certa sensazione di vittoria ho frequentato le sue stanze negli anni della formazione assieme ad altri studenti – quasi tutti figli di contadini – pensando di aver usufruito di una reggia per scopi più nobili dei miei predecessori, e grazie a una sorta di esproprio proletario. Almeno così lo chiamavano noi di sinistra.

Dunque appena un secolo dopo si diede il via alla linea ferroviaria così la famiglia reale si poteva spostare verso il mare. Insomma: la ferrovia serviva ai ricchi.

Negli anni la situazione non sarebbe cambiata. Nel 1859 la rete ferroviaria del Regno delle due Sicilie era di 99 chilometri (850 km Piemonte e Liguria; 522 km Lombardia e Veneto, 257 km Toscana, pure il papato superava i Borboni, 101 km). La ferrovia era in quegli anni il motore del progresso e stava rivoluzionando il commercio: i prezzi su rotaia erano più competitivi di quelli via mare.

Per le strutture creditizie la disparità era forte. Al tempo dell’Unità, nel Regno delle due Sicilie esistevano due banche pubbliche, il Banco di Napoli (con una sola filiale, quella di Bari) e il Banco di Sicilia (due sedi, a Palermo e a Messina). C’erano poi 1200 monti frumentari ma esercitavano credito in natura, prestavano sementi per la raccolta.
Nel Centro Nord la situazione creditizia era ampiamente diversificata e in piena evoluzione: c’erano molti istituti genovesi, torinesi e lombardi. Insomma moneta – metallica e cartacea – che poteva essere investita.

I dati sull’istruzione, quelli invece, erano ancora più impressionanti. I Borboni lasciarono in eredità l’86% di analfabeti (dato 1861 che si avvicina a quello della Russia zarista). Nessuna donna sapeva leggere e scrivere. «In una società  – scriveva Emilio Sereni “Il capitalismo nella campagne” – in cui l’agricoltura costituisce la fondamentale attività produttiva, l’esclusione delle donne dal lavoro dei campi comporta una sua netta inferiorità sociale. Questa si manifesta chiaramente nel regime ereditario e soprattutto nella totale subordinazione della donna all’uomo, il marito è difatti non solo il capo incontestato della famiglia ma il signore, il padrone della donna». Mentre fra gli uomini solo preti aristocratici e qualche borghese era alfabetizzato. Nella Spagna la quota di analfabeti era del 75, mentre il Piemonte e la Lombardia stavano sul 50% e la Liguria 35%: si poteva intravedere sul nascere il triangolo industriale.

Sul reddito c’è invece una questione aperta, alcune stime (Daniele e Malanima) riportano una sostanziale equità, altre, quelle di Vecchi e Felice (che incorporano il lavoro di Ciccarelli e Fenoaltea e altri e usano la procedura Geary e Stark, adottata in ambito europeo), forniscono risultati diversi: fatto 100 l’Italia il meridione presentava un PIL per abitante di 90, mentre il centro Nord di 106. La differenza tra meridionali e gli altri italiani era del 19%.
Può sembrare poco, ma considerando che il reddito annuo era già molto basso, quella che sappare come una modesta percentuale invece incide significativamente.

A prescindere dalla precisione delle stime, Emanuele Felice sottolinea che «La metà degli abitanti del Regno delle due Sicilie viveva sotto la soglia della povertà, le classi popolari lottavano per sopravvivere. Se non potevano mandare i loro figli a scuola, non avevano neppure speranza di riscatto, tanto meno si poteva avviare una qualche meccanismo virtuoso di crescita economica. Ma al Sud viveva anche una minoranza agiata, doveva essere molto agiata, se è vero che innalzava il Pil medio su livelli più alti di quanto ci si aspetterebbe dagli indicatori sociali. Specie in Campania, dove si concentrava nei palazzi dell’antica capitale. E non pare che questa Élite di aristocratici e borghesi fosse particolarmente viva sul piano imprenditoriale e sociale».

Emanuele Felice sulla questione reddito fornisce anche altre semplici indicazioni, a mo’ di euristiche. Prima di tutto le chiare e pesanti conseguenze della presenza del latifondo: nel Mezzogiorno di fine Settecento, le famiglie possidenti ammontavano a circa 600, cui si aggiungevano una cinquantina di baroni ecclesiastici, poche migliaia di teste, cioè 1% della popolazione. Per questo Pasquale Villani scriveva che «una novantina di baroni esercitavano la loro giurisdizione su 2 milioni di vassalli». E comunque è strano, o forse no, anzi è una chiave di lettura: pensare che l’intervento modernizzatore più dirompente di tutta la storia del Regno di Napoli e di tutta la storia pre e post unitaria, sia stato quello compiuto il 2 agosto del 1806 da Giuseppe Bonaparte (installato a Napoli a seguito dell’esercito napoleonico) che abolì con una sola legge e in un solo colpo l’intera giurisdizione che per secoli aveva dato ai baroni potere assoluto su uomini, terre, castelli, fiumi e strade etc: l’abolizione della feudalità, insomma. Essendo un intervento top-down, dopo la sconfitta dei moti del 1820/21, nei decenni che seguirono il potere dei baroni rimase sostanzialmente immutato: pure nel nuovo quadro giuridico, cambiò sì forma ma non sostanza. Io stesso da ragazzo ho potuto vedere le segreterie dei notabili politici piene zeppe di persone cariche di regali di varia natura – infiocchettati e non –  che chiedevano varie questue promettendo in cambio voti: un regime feudale di nuovo conio.

Ora che dire di quella sensazione di sicurezza sperimentata nella prima metà degli anni ’70?
I divari regionali sul reddito dall’Unità ad oggi, divisi per macroaree (Nord Ovest, Nord Oves e centro e Mezzogiorno) illustrano un percorso in quattro fasi.

La prima (1861-1913) rappresenta l’Italia liberale. Si intravede in nuce la nascita del triangolo industriale, mentre il Mezzogiorno arretra, ma si tratta di una ritirata contenuta. Va detto che nel 1871 le singole regioni si sovrapponevano tra una macroregione e un’altra. La Campania, per esempio – fatto il reddito italiano uguale a 100 – aveva un reddito medio di 107, e dunque era al quarto posto, dopo Lazio, Liguria, Lombardia, e comunque prima di Piemonte e Toscana.

La seconda fase: dal 1913 al 1951. E’ il periodo di massima divergenza tra Nord e Sud: due guerre e il fascismo e anche il periodo di accentuata omogeneizzazione all’interno delle macroaree,
La terza fase: dal 1951 al 1973. Dall’inizio del boom fino alla crisi petrolifera, è fase di maggior convergenza: camminavano infatti convinti del nostro ritmo e sicuri della progressione.
La quarta fase, appunto dalla crisi petrolifera ad oggi, è la fase della lenta – e qualcuno dice inesorabile – divergenza.
Bene, ma cosa dunque nel ventennio 51/71 ha cominciato a convergere?

Siccome il reddito – che poi è ricchezza materiale – non l’unica dimensione della modernità, è interessante concentrarci anche su altri indici. L’istruzione per esempio. Se nel 1911, gli analfabeti al Sud rappresentavano ancora il 59% della popolazione (al Nord Ovest il 13%, al Nord Est e Centro il 34%), nel 1971 gli analfabeti erano al 5%, mentre al Sud l’11%. Qui contano le leggi sull’istruzione: quella del 1850, la legge Casati (due anni di scuola elementare gratuita, e ai comuni l’onere del finanziamento); la Coppini (promulgata dalla Sinistra storica) che aumentava di altri due anni l’istruzione obbligatoria e prevedeva aiuti finanziari ai comuni bisognosi; la Orlando, altri due anni di istruzioni; e poi – soprattutto – la legge Daneo-Credaro (1911) che aumentò gli stanziamenti e si assunse i compiti finanziari, i maestri erano pagati dallo Stato; e infine la legge 1859 (31 dicembre 1962) che istituiva la scuola media unificata.

Se la convergenza c’è stata – anche se negli ultimi anni si sta assistendo, invece, a un certo distacco – è importante sottolineare le difficoltà e la lentezza della stessa. In effetti, nei primi anni dopo l’Unità, in molte zone povere del Sud molti municipi non avevano risorse e nemmeno c’era la volontà politica. Se al Nord la classe borghese e possidente si autotassava per fornire servizi pubblici, al Sud questo sistema funzionava poco.

C’è tutta una letteratura internazionale che mostra come la distribuzione ineguale della proprietà della terra abbia ripercussioni forti sull’istruzione. Il latifondo nel Sud rientrava in questa categoria. I latifondisti non ricevono alcun vantaggio dal finanziare l’istruzione, gli agricoltori non diventano più produttivi – al contrario di quanto avviene nell’industria – e poi un contadino più istruito più facilmente emigra o va al lavorare nell’industria. Ragione per cui i latifondisti tendono ad ostacolare l’istruzione e se hanno potere politico (come al Sud) la loro azione di contrasto sarà più forte.

Esistono parecchie evidenze empiriche – per esempio negli Stati Uniti della prima metà del Novecento – e poi c’è un ampio ventaglio di paesi in via di sviluppo, soprattutto in America Latina fra il 1960 e il 1990. Felice sottolinea anche il fatto che un anno di istruzione del Sud non ha lo stesso valore del Nord: insomma al Sud si impara meno, almeno a leggere i risultati del test Pisa.

La convergenza si nota poi nella dimensione salute. L’aspettativa di vita alla nascita aumenta in modo vertiginoso e l’Italia nel suo complesso fa meglio di molti paesi europei. Qui vale sia il miglioramento nei livelli nutrizionali, dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento, sia la diffusione di pratiche di igiene personale e la costruzione di infrastrutture urbane e fognature che garantivano la salubrità dell’acqua corrente. Poi l’avvento della medicina moderna che ha ridotto la mortalità infantile e infine, negli anni ’60 del novecento, la diffusione degli antibiotici (quante siringhe negli anni ’60/ ’70).

E comunque negli anni ’70, il Sud supera il Nord (74,2 gli anni di vita attesi alla nascita, contro i 74 del Centro Nord, anche se poi il Sud da allora ha perso qualche punto). Qui c’è da dire che le prime fasi dell’industrializzazione del Nord non portò vantaggi alla salute, anzi peggiorò le condizioni di vita: vuoi per i turni massacranti, vuoi per le pessime condizioni sanitari dei centri urbani.
Emanuele Felice usa – in linea con le ipotesi di Luciano Carfagna e altri – il termine modernizzazione passiva per spiegare il perché, nonostante alcune felici convergenze il Sud sia poi rimasto indietro: insomma, perché questa storia poteva diventare un successo e invece non lo è stata. Modernizzazione passiva  ossia una modernizzazione senza un blocco storico che vi eserciti un ruolo guida. La questione modernizzazione attiva è molto interessante e di lunga trattazione, in sintesi: una modernizzazione attiva, oltre a garantire alcune precondizioni di sviluppo – adeguato sistema ferroviario per creare mercato nazionale, struttura creditizia per velocizzare la diffusione di nuove tecnologie e tariffe per proteggere le imprese nascenti – deve la sua forza alla creazione di istituzioni di tipo inclusivo, che tendono a favorire la partecipazione dei cittadini e si fondono su un sistema di legalità efficiente ed uguale per tutti.

Il Sud avrebbe vissuto una modernizzazione passiva – e dunque di tipo estrattivo – si sarebbe adeguato a canoni esterni e, insomma,  la definizione di Vera Zamagni è più efficace: si sarebbe trattato di un «trapianto di iniziative che ha finito per scontrarsi l’atavica struttura di potere locale da tempo riconosciuta nociva al costituirsi di una dinamica società moderna». Dunque intervenire dall’alto e sperando che un serie di interventi potessero migliorare alcune situazioni pregresse, tutto questo si sarebbe rivelato un’illusione: non si può mutare qualcosa malgrado questo qualcosa, così come non si può mutare «il Sud malgrado la sua struttura di potere economico e sociale».

La Cassa per il mezzogiorno è l’esempio tipico. Nel 1951 la divergenza tra Nord e Sud toccò il suo apice: da una parte l’avvio del miracolo economico dall’altra il vuoto. Il nuovo meridionalismo dell’associazione per lo sviluppo dell’industria per il Mezzogiorno (Svimez) fece diventare prioritario il tema dello sviluppo del Sud, ci sono numerosi atti parlamentari e discussioni in proposito. Nel 1950 venne istituita la Cassa per il Mezzogiorno e così prese il via l’intervento straordinario, attraverso due canali di intervento, quello diretto (costruzione di strade, infrastrutture, opere di bonifica) e quello indiretto (finanziamento di imprese industriali).

Non c’è che dire: a leggere i dati funzionò. Dal 1951 al 1971 la quota di addetti all’agricoltura nel Mezzogiorno crollò dal 59% al 33%, e la quota degli addetti all’industria passarono dal 16% al 25%.
La convergenza è dovuta all’azione della Cassa, che in gran parte si risolse in interventi pubblici a fondo perduto per finanziare chimica, siderurgia, meccanica avanzata. Una terapia top-down, i grandi impianti capital intensive avrebbero dovuto fare da traino e si sperava favorissero col tempo la nascita di piccole e medie imprese.

Passeggiando lungo la strada, quella domenica del 2 dicembre 1973 ancora non lo potevo sapere e nemmeno mio padre – e gli amici di mio padre che lavoravano con la Cassa – che la crisi petrolifera stava per quadruplicare i costi del petrolio e dunque i grandi comparti industriali, soprattutto quelli meridionali, stavano per subire un pesante colpo. Da lì a poco sarebbero fallite quasi tutte le fabbriche e l’intera strategia produttiva del Mezzogiorno, e tra l’altro la classe dirigente tornò o riprese a usare i suoi principi estrattivi: usare i finanziamenti pubblici per rafforzare le sue posizioni di potere e i vari privilegi. Per questo le segreterie dei notabili casertani erano sempre piene di cittadini (non esiste la casta senza fornitori) e lì, in quelle sedi, anche a seconda dei regali, si decidevano commesse e appalti. È interessante notare come dal 2000 al 2006 con i programmi di sviluppo per il Mezzogiorno si è cercato di cambiare strategia: non più top-down ma bottom-up. Quindi l’orientamento era favorire le imprese locali, in accordo con le istituzioni locali, consentendo – così si sperava – alle forze produttive del Sud di emergere e di affermarsi.

Lungo quella strada e per tutte le varie diramazioni, io e altri per esempio, non ci siamo mai accorti di queste nuove forze, a parte di quelle che giocavano in accordo con la camorra. E alla fine tra recriminazioni, spettacoli sul brigantaggio, accuse e scuse, è mancato proprio un bilancio serio (costi- benefici) è mancata la lucidità. Nonostante il pensiero meridiano e la sua misura siamo e continuiamo a essere smisurati, eccezionali. Siamo così, prendere o lasciare, e via dicendo. Invece potevano impiegare le nostre energie per porci una domanda: con quali strumenti e attraverso quale classe politica, da noi stessi eletta (poi, è chiaro, ci sono gradi di responsabilità diversi), abbiamo gestito questi ultimi 50 anni?

In fondo, La rivoluzione culturale non si avvia con i proclami di eccezionalità (altrimenti poi per la gestione bisogna adottare un protocollo straordinario). Ma, se davvero vogliamo creare una differenza qualitativa con il passato, dobbiamo adottare uno stile diverso.
Se non possiamo criticare le cose che non ci piacciono – usando lo stesso linguaggio di quella cosa perché, appunto, la riprodurremo con altro abito – è anche vero che non possiamo iniziare rivoluzione culturale facendo quello che finora abbiamo sempre fatto: avanzando le critiche agli altri.
Magari il nemico è proprio in casa: sono le nostre stesse opinioni sul Sud, da anni e anni cristallizzate.

Così, lungo quella strada, camminiamo scoraggiati e sfiduciati. Forse per questo il percorso è pieno di nebbie. Qualcuno di noi è convinto che al Sud si viva meglio, e questo è un mito che andrebbe al più presto smontato. Qualcun altro rimpiange. Altri (e molti) invecchiano e hanno poche energie e poca voglia di sperare. Cosa sperare? Nel Nord. Ma è in difficoltà e ha poco da offrire, meglio poi il Nord Europa: due ore di volo e sei a Londra, Berlino. Anche se l’emigrazione è stata sempre una costante dal Sud, ora gli ultimi esodi sono più allarmanti. Si tratta di fuga delle persone più preparate, un drenaggio di intelligenze. E se restano i peggiori, i peggiori metteranno un’ipoteca seria sul futuro.

C’è bisogno di un riscatto civile? Lo diciamo tutti. Ma poi passa il tempo e ci rincontriamo sulla strada e ci tornano di nuovo in mente le parole di Carlo Levi: «Cosa speri? Niente. Cosa si può fare? Niente e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo».

E allora, questo riscatto? A che punto è? Che facciamo?

Emanuele Felice, perché il Sud è rimasto indietro (il Mulino)
Giovanni Vecchi, In ricchezza e povertà (il Mulino).
Per la discussione sulla metodologia di stima tra Daniele e Malanima e Felice si veda qui e qui.
Pasquale Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Laterza.
Vera Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali.

I testi che indagano il rapporto tra proprietà fondiaria e istruzione: O. Galor, O. Moav, D. Vollrath: Inequality in Land Ownership, The Emergence of Human Capital Promoting Institutions, and the Great Divergence.
R.Hippe e J. Baten: Human capital formation in Europe at the regional level – implications for economic growth

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.