Newsletter, le opere struggenti di solitari geni della scrittura digitale

Le newsletter, queste amate e anche queste sconosciute. Ce ne sono tante, tantissime. Ma attenzione, il prodotto genuino non sono quelle fatte a nastro dai giornali come tentativo di sbarcare il loro traballante lunario (penso a te, Repubblica, e alla tua orgia di titoli sparati nelle caselle email di migliaia di persone ogni mattina), bensì il lavoro di anonimi curatori, geni delle nicchie, Rommel degli spazi interstiziali, che coprono con passione un settore non importa quanto microscopico. Come il voster-semper-voster qui presente, per dire. Ce ne sono tante, di newsletter, tantissime, perché viviamo nell’economia della lunga coda, quella per cui i best-seller ci sono ma sono piccoli. Come quelli dei mille (circa) esseri umani genuinamente appassionati di tralicci elettrici.

Il Post, che gentilmente mi ospita, sta a metà, così come altri casi di testate dotate di newsletter (vedi quelle fantastiche del Foglio, ad esempio) in cui prevalgono secondo me due aspetti: l’autorialità del singolo e il suo desiderio esplicito di essere un curatore, più che un autore. E anche la mancanza di fini di lucro. Ma vediamo meglio.

Le più vecchie del mondo conosciuto
Pochi giorni fa mi è arrivato il numero di luglio di “Current Cites”, una delle più vecchie newsletter a cui mi sono abbonato: secondo Gmail nel 2008, ma la leggevo anche prima con un altro account. Current Cites è una bestia strana, gestita per trent’anni da Roy Tennant. Uscita implacabilmente ogni mese per tre decenni, è una newsletter per bibliotecari che segnala cose utili in quel settore, dialogando però con le novità tecnologiche del nostro tempo. È anche la second longest-lived Internet publication in existence, battuta di pochi mesi da TidBits, altra newsletter storica a cui sono abbonato da una vita. Per una felice combinazione, insomma, da vent’anni monitoro due delle più vecchie newsletter del pianeta.

Nell’ultimo numero Tennant annuncia il passaggio di testimone a un nuovo direttore/curatore (sul significato di questo termine ci ritorniamo tra un attimo), Edward Lim Junhao, perché è arrivato il momento di andare in pensione anche dagli hobby, dopo essere andati in pensione dal lavoro “vero”. Infatti, Current Cites è un hobby, o forse una cosa a metà con il lavoro (dopotutto gli impiegati di concetto non sono come gli operai, non lasciano gli attrezzi in fabbrica alla fine del turno, ma se li portano a casa ancora ben funzionanti nello spazio tra le orecchie), usata in quell’area grigia che sta assorbendo sempre di più l’informazione settoriale, specifica, specializzata e di nicchia.

Lavorare divertendosi (ehm…)
Current Cites non è (soltanto) l’opera struggente di un solitario genio della scrittura digitale. Come riporta correttamente Il Post in questo articolo in cui si parla di Substack, la piattaforma attualmente più di moda per fare newsletter (perché serve una piattaforma, vedi dopo), c’è tutto un mondo. Dopotutto le newsletter sono un contenitore che può ospitare contenuti dei generi più svariati: bisognerebbe secondo me utilizzarne il nome sempre al plurale: le newsletter.

Il Post “vede” soprattutto quelle a fini commerciali e fatte da giornalisti che giocano la carta del “fly solo”, in cui cercano cioè guadagnare soldi sviluppando un prodotto adatto per la loro nicchia. Viviamo in una economia di nicchie e, dice Luke O’Neil citato dal Post, «Se raccogliete 150 iscritti e non ci state dentro, lasciate perdere. Mettiamo invece che troviate 100 lettori disposti a darvi 5 dollari al mese: per un giornalista freelance, 500 dollari al mese non sono pochi». Nel merito, concordo. Ma non è questo secondo me il motivo per cui le newsletter oggigiorno vanno alla grande.

Il punto penso sia un altro: le newsletter che vanno sono quelle gratuite. Anzi, per dirla meglio: vanno quelle “non a pagamento”. Poi ci si arriva, è una vecchia storia dei media (avete presente le campagne per “l’abbonaggio” di Radio Popolare o gli abbonamenti del Post stesso?), ma la forza della newsletter non è tanto quella di essere una specie di giornale che qualcuno vuole pagare, o una brochure pubblicitaria come indica l’altro significato del termine (e che per molti giornalisti ed esperti di comunicazione la convergenza dei due sarebbe l’ideale: un pubblico pagante a cui fornire la solita informazione sponsorizzata “che tira”). In realtà, almeno per me e a quanto pare anche per qualche altro, non è assolutamente così.

Infatti, le newsletter, che oggi stanno vivendo un periodo di successo inedito (e che avevano sofferto fortemente sia durante l’epoca dei blog che durante quella dei social soprattutto se di tipo visivo o chiusi al mondo, come Facebook), secondo me sono un’altra cosa. Sono un atto d’amore, di passione e di personale ossessione. Sotto sotto credo che siano un delirio di onnipotenza, perché sono una comunicazione totalmente asimmetrica (si possono solo leggere, a differenza dei blog e dei social dove sono previsti degli spazi condivisi per i commenti), oppure una nevrosi (il bisogno di parlare agli altri a tutti i costi di qualcosa) o un mix delle due.

Un mondo di curatori
Con la trasformazione dei canali di comunicazione digitali e analogici, le ibridazioni, l’alluvione di fake news e di contenuti irrilevanti (ma gustosi), la patologica impraticabilità dei social (diventati talmente tossici da aver avvelenato anche la loro stessa acqua ancora nei pozzi), leggere le newsletter è diventata una attività piacevole. Dentro ci si trova non soltanto il contenuto di una nicchia, ma anche e soprattutto un contenuto curato da qualcun altro. Perché, diciamocelo chiaro: qualsiasi strumento di informazione, dal giornale al canale Telegram, effettua una selezione. Dentro ci si trova una parte del mondo, quella “That’s Fit to Print” come dice il New York Times: nel nostro piccolo di corsari delle newsletter indipendenti, la pensiamo esattamente così. Dentro c’è quel che è degno di essere pubblicato, secondo noi. Cioè, ogni newsletter è esclusiva (esclude la gran parte del mondo), non inclusiva (non cerca di sintetizzarlo tutto), e rappresenta sommamente il gusto del suo curatore. Bello no?

Peraltro, ci sono due tipi di newsletter: quelle con contenuti totalmente propri (quelle che “hanno qualcosa di dire”) e quelle che raccolgono altri contenuti (link a “cose che vale la pena leggere”). Le seconde sono le più interessanti, per il nostro ragionamento, perché stanno occupando uno spazio crescente. E i loro curatori diventano i “direttori irresponsabili” delle nostre menti e delle nostre fantasie ancora di più degli algoritmi di Facebook, anche se in maniera molto più frammentata. E questa è una cosa buona, perché è la centralizzazione e la uniformizzazione il vero pericolo, non la scoperta di un gusto che ci ispira e ci accompagna facendoci crescere. Diversi è meglio.

Le newsletter degli altri
Allora, in questa mia ottica le newsletter diventano l’opera struggente di solitari geni del marginale, che però fanno un’opera notevolissima: creano un plateu di contenuti già individuati, premasticati, pronti per l’uso, cioè la lettura. Sarà con tutta probabilità una nicchia (i bibliotecari online, la security digitale al tempo delle guerre di rete come fa da noi Carola Frediani) oppure potrà essere un tentativo di sintetizzare il mondo dall’ombelico degli Usa (NextDraft di Dave Pell, ad esempio). E, visto che parliamo di Internet, c’è chi mette assieme le cose dette e pensate dalla community, vedi le varie newsletter create da Slashdot, Quora, Y-Combinator: si chiamano Digest e in alcuni casi possono essere estremamente gustose.

In ogni caso, il lavoro di chi fa le newsletter non è poi tanto diverso da quello che facevano una volta i giornali con il lavoro dei propri giornalisti: si seleziona e poi forse si scrive anche. Ancora oggi alcuni giornali selezionano molto e un po’ scrivono in proprio (magari riprendendo anche molte agenzie e occupandosi solo dei titoli e dell’impaginazione, che è poi quello che conta per il pubblico) e altri invece a scrivere non ci provano proprio: selezionano, traducono e impaginano (avete presente il nostro Internazionale? Fa una cosa così, anche se negli ultimi anni pubblica sempre più articoli scritti internamente o commissionati).

C’è anche una certa difficoltà tecnica
Quando poi si parla di newsletter non bisogna dimenticarsi che farne una, scritta in proprio o tramite una mini-redazione o semplicemente giustapponendo tanti link commentati, non è tecnicamente banale da realizzare. Oggi sembra tutto facile perché ci sono le varie e famose piattaforme da Substack a quella TinyLetter che adopero per la mia newsletter Mostly Weekly, appendice del mio canale Telegram Mostly, I Write. Tra l’altro di queste cose relative ai canali Telegram qui sul post avevo già parlato un po’ di tempo faindagando quelli che avevo definito “segnali deboli” provenienti dalla rete.

In realtà, una volta le newsletter si spedivano a quei quattro gatti dei propri lettori direttamente dal proprio client di posta, magari con un alias a tema generato sopra il proprio indirizzo di posta (facevo così con una cosa intitolata “FunBits” e durata per un po’, a partire dal 1995 circa); oppure, bisognava procurarsi un software totalmente legale che faceva invii di massa gestendo una tabella di indirizzi e andando a pescare anche dal campo “nome” la stringa di testo adatta per poter personalizzare la newsletter con un “Ciao XX” diverso per ogni destinatario che all’epoca sembrava magia nera; oppure ci si appoggiava ad altri software di marketing più sofisticati, andando a sconfinare nel territorio che convenzionalmente viene definito spam.

Tennant spiega che, quando ha iniziato la sua Current Cites, per mandare la newsletter le tecnologie erano molo diverse, tanto da suggerire che oggi sia arrivato il momento di fare un aggiornamento:

Since the infrastructure I’ve used for many years to produce the publication has relied on a number of technologies that now seem overly difficult and/or archaic (Perl scripts, XSLT, command line processing, even a step that requires the long-outdated Lynx web browser), it seemed like well past time to move to a different platform.

Il suo erede, Edward Lim Junhao, trasferirà tutto su una piattaforma tecnologica diversa, di tipo collaborativo (per poter coinvolgere più autori), ma garantisce che la newsletter rimarrà sempre gratuita (“without monetizing or cashing in”). Ed è proprio la gratuità e l’attitudine a “flight solo”, a fare tutto da sé, rimanendo “puro” e cioè gratuito, la doppia chiave.

One man band
Quello che il digitale permette, grazie alla disintermediazione tra chi raccoglie o crea e chi invece consuma i contenuti, è la nascita dei flussi generati da una persona sola. Le “one man band”, o le “one man army” se preferite. Solo che, per andare avanti per trent’anni a pubblicare una newsletter gratuita, devi essere motivato. Molto motivato. Vi garantisco che anche un paio di anni di newsletter settimanale, come la mia, richiedono una discreta passione-ossessione, oltre a una certa predisposizione alle manie ossessive-compulsive. Nel mio caso è il desiderio di togliermi di torno quelle decine e decine di tab che ogni giorno mi restano aperte nel browser e che non sono abbastanza importanti ma neanche così inutili: le metto nella newsletter, almeno mi illudo che volendo un domani le posso andare a cercare, se mai dovessero servirmi. E poi sono curioso di vedere come funziona questo mondo del fai-da-te, e mi diverte farlo (mettiamola così).

E gli altri? Le motivazioni, ma forse dovrei dire le ossessioni, sono le più diverse. Narcisismo e ego ipertrofici, ovviamente. Ma sarebbe limitativo e, diciamocelo, anche un po’ ingenuo limitarsi a questo. Se vogliamo, infatti, là fuori c’è tutta una flotta di pirati dell’informazione, una ciurma maledetta stile quella della Perla Nera di Jack Sparrow, a cui piace l’idea di fare questa cosa anche perché, oltre a sentirsi importanti, gli piace proprio farlo. Gli dà gusto.

L’informazione tradizionale (o quasi) dal canto suo si è messa a osservare il fenomeno e a raccontarlo con lo stile classico dell’informazione tradizionale: infatti c’è chi subito ha stilato la lista “delle 80 migliori newsletter” (in inglese) gestite ognuna da una persona sola. È una “good, eclectic list, and it’s good to support the indies. That used to be what the internet was all about.” Quindi, c’è anche lo spirito della internet degli inizi.

Il successo di Substack per me è la conseguenza, non il sintomo e tantomeno la causa di quel che sta succedendo. L’email è una creatura strana, nata molto prima del web (la chiocciolina è stata utilizzata per la prima volta da Roy Tomlinson nel 1971 al Mit di Boston, il web è arrivato negli anni Novanta) e ancora oggi le email sono il mediatore digitale più diffuso. Si raggiungono più persone con l’email che con qualsiasi altro strumento. Per noi individui digitalmente anziani la posta elettronica è stata fantastica perché, ben lungi dall’essere veramente un tipo di posta (è solo una metafora: manca tutto e soprattutto manca la riservatezza della busta, che fa da velo al contenuto, a differenza del formato dell’email che in rete viaggia in chiaro), era uno strumento digitale di comunicazione alquanto facile e soprattutto leggero. Intendo dire: sui modem da 33.600 l’email testuale letteralmente volava.

Qui una volta era tutta email
Voi non ci crederete, infatti, ma una volta la posta elettronica era testuale (le prime simil-web su larga scala le faceva Microsoft con il maledetto Outlook in formato RTF e le odiavamo tutti), occorreva un software ad hoc per usarla. Poi sono arrivate le webmail e poi è arrivata Google con Gmail e sostanzialmente è finita, perché la mail è diventata un’altra delle mille cose che si facevano via web con tecnologia Ajax (prima che arrivasse l’Html 5) e il serbatoio non aveva più il fondo: potevi mettere allegati enormi. Senza contare che le mail non erano più “Pop” (cioè te le scaricavi in locale) ma “Imap” (cioè rimangono sul server e le puoi vedere da un sacco di posti diversi senza grossi problemi di sincronizzazione.

Non c’entra più niente, insomma, con il mondo in cui il mio vecchio US Robotics grigioverde sferragliava e fischiava prima di agganciare il provider, mettendo in fuori gioco il telefono di casa, e sparava raffiche di bit a una velocità che, se avevi orecchio, potevi quasi distinguerli. Insomma, per un decennio con la mail ci si faceva di tutto: io ci comandavo server che eseguivano i miei ordini, facevo ftp di documenti, ci scrivevo e ci mandavo i disegnini di AsciiArt. Ci facevo anche i giochi di ruolo (testuali). La mia vecchia inbox su Claris Emailer era uno spettacolo e un giorno, se non è troppo tardi, devo salvarla e infilarla in una macchina virtuale per poterla far sopravvivere ancora un po’.

Partendo da quel punto nel tempo e nello spazio, negli anni le newsletter sono diventate un oggetto sempre più diverso. Da un lato lo spam, dall’altro il marketing aziendale (che si reinventa con idee sempre nuove, come l’attuale mania per lo storytelling) e nel mezzo quelli che fanno la loro newsletter da soli. Il prodotto artigianale. David Pell, citato sopra per NextDraft, spiega che “L’algoritmo sono io”. E specifica: «Each morning I visit about 75 news sites, and from that swirling nightmare of information quicksand, I pluck the top ten most fascinating items of the day, which I deliver with a fast, pithy wit that will make your computer device vibrate with delight. No bots. No computer algorithms.»

Lo spirito è questo: il curatore, che è cosa diversa dall’editor o dall’autore, ci mette del suo. Parecchio del suo, per essere precisi. E il lavoro è artigianale, qualcuno direbbe “genuino” (Nota: a me la parola “genuino” fa venire in mente quell’estate universitaria in cui ho lavorato in una trattoria tipica di San Casciano, e il titolare proponeva ai turisti del nord Italia “una grappina che la fa i’ contadino qui vicino; certo, la costa un po’, ma gli’è genuina”, e gli rifilava la Nardini scaraffata in qualche vecchia bottiglia senza etichette).

What’s your poison?
Cinque anni fa il primo a distribuire email in massa mettendoci dentro il macinato fine di qualità è stato Ben Thompson con Statechery. Il punto qui è stato avere contemporaneamente l’idea di business (la newsletter) e la tecnologia per farla. Perché prima delle piattaforme, come diceva sopra Tennant, servivano tecnologie esoteriche o software da spammer. O un mix dei due. Oggi, in piena bolla da newsletter, negli Usa di piattaforme ce ne sono a decine e di newsletter ce ne sono a centinaia di migliaia, soprattutto fatte da ex giornalisti (e bisognerebbe approfondire meglio cosa voglia dire questo essere o essere stati “giornalisti”, visto che la maggior parte sono figure piuttosto leggere dal punto di vista professionale) e la stessa cosa sta cominciando ad accadere anche da noi.

Il gusto della newsletter secondo me sta anche nel fatto che è push e non pull: anzichè andare a fare il giro di mille siti, che spesso non sono stati ancora aggiornati o lo sono in maniera parziale, una buona newsletter ti dà lei il succo della situazione. Ci sono tanti generi: i notiziari economici, politici, sui videgiochi, sulla medicina e il territorio, sull’astronomia, sulla tecnologia, sul mondo Apple, sulla musica di questo e di quell’altro genere o su questo sport piuttosto che su quell’altro. Insomma, ci sono più newsletter che corna in una gerla piena di lumache: non ho da consigliarvene in particolare, perché in realtà non finirei più. E poi perché la mira dei singoli autori di questi prodotti genuini è talmente affinnata, come quella di un raggio laser, che il mio gusto e il vostro è sicuro che non coincidano. Provo a dire invece cosa ho capito io facendo la mia.

Mostly Weekly
Quando ho ricominciato a tenere una newsletter, dopo i tentativi degli altri Novanta e altri avvenuti per lavoro nel corso dei Duemila, la cosa fondamentale è stata che dovesse essere una mia idea. Una cosa tutta mia. Un prodotto “self made”. Un amico che gestisce il suo server di posta elettronica, connesso al suo dominio personale, mi ha spiegato che tentare di fare tutto in casa è praticamente impossibile. Negli ultimi venti anni la libertà del segmento internet della posta elettronica si è molto ridotta: montagne di spam (che per i gestori dei servizi sono estremente costose e vengono contrastate in continuazione con tutti i mezzi possibili, spesso draconiani e senza appello per i fornitori di posta che ignorino i passi corretti da fare) hanno reso la gestione di un mail-server un vero e proprio lavoro che non ammette dilettanti. Quindi, bisogna andare su piattaforme di terzi. Per fortuna ce ne sono anche non a pagamento.

Nel mio caso TinyLetter era anche un modo per fare un viaggio all’indietro, visto che il marchio è antico anche se è stato comprato da MailChimp (uno di quelli grossi nel settore: 700 milioni di dollari di fatturato nel 2019 e più di 800 dipendenti) qualche anno fa. Si tratta di piattaforme per la “marketing automation”, segnatamente per l’email marketing: cercare di fare un po’ di e-zine digitali via email è quasi un’utopia, tra venditori di salami e influencer in cerca della multicanalità perduta. Comunque, l’interfaccia è facile da usare (anche se non esiste che io sappia una app o una versione responsive del sito per lo smartphone e soprattutto per il tablet) e permette di creare una email molto semplice che poi è quello che cercavo. Volevo uno stile più simile a quello dei miei anni verdi e dei miei eroi (TidBits, soprattutto), e non a una specie di minisito web carico di javascript come una vecchia spugna avvinazzata quando esce dall’osteria del paese (tipo il suddetto turista del nord Italia). Insomma, TinyLetter per me era lo-fi quanto basta.

Il vero problema, invece, è stato trovare la mia formula e organizzare i contenuti. In una sostanza, la “voce” di Mostly Weekly, che è diversa da quella del mio canale Telegram, Mostly, I Write.

Dopo una settantina di numeri posso dire che TinyLetter, pur con tutti gli ovvi limiti, è perfetta per me. Invece, quel che è necessario è un grosso lavoro di pianificazione. Che, nel mio caso, si ottiene instaurando delle abitudini quotidiane o poco meno che poi mi permettono di avere una newsletter praticamente già fatta alla fine della settimana.

Cosa faccio. Leggo altre newsletter in cerca di spunti interessanti (lo farei comunque), trovo o scrivo articoli che possono essere utili, cerco di dare un occhio ai settori dell’industria culturale che mi interessano, e poi ho diviso la newsletter a sezioni in maniera tale che completarla sia un gioco a incastro. Durante la settimana, dunque, salvo i pezzetti che trovo dentro il mio file che fa da palinsesto, che poi il sabato mattina riverso nella newsletter e ripulisco per la settimana dopo. Mi sento un po’ curatore, un po’ editore, un po’ pirata e un po’ architetto. Soprattutto, fatico ma mi diverto. E, bonus non irrilevante, quando sul web incontro cose assolutamente inutili per il mio lavoro, posso giustificarmi dicendo che serviranno per la newsletter e salvarle sul mio blocco degli appunti con un rapido commento. Il piccolo Flaiano che è in me scodinzola soddisfatto. Il sabato mattina in due ore va tutto in sintesi, incluse le due foto rituali in bianco e nero che ho scattato in precedenza per il mio Instagram. La domenica mattina, previa rilettura davanti a una tazza di caffè, la spedisco al mio popolo degli iscritti.

Cosa succederà domani?
Oggi sono le newsletter, e domani? Una delle ragioni del successo attuale delle newsletter è la frammentazione estrema delle fonti di informazione tradizionali. Ma è anche la creazione di un tipo differente di comunità, all’interno delle quali la passione (o l’ossessione) o magari la riconoscenza guidano le scelte dei lettori. Craig Mod ad esempio è un americano che vive da vent’anni in Giappone: parla e legge correntemente il giapponese, è amante della buona fotografia e della buona tipografia (gusti molto hipster e nello spirito del tempo che oggi caratterizza il primo mondo) e soprattutto ama camminare. Tanto da fare in continuazione (almeno, per i miei standard) vere e proprie traversate del Giappone rurale, delle sue montagne (le Alpi giapponesi) ai suoi mari, raccontandole in lunghi, sognanti reportage, con podcast fatti esclusivamente dal rumore dei boschi che attraversa e delle sorgenti accanto alle quali cammina, di libri squisitamente composti e minuziosamente documentati in rete (oppure nati già del tutto digitali). E ovviamente non di una ma almeno tre newsletter, tra le quali ci sono Ridgeline (settimanale, su Giappone e camminare) e Roden (mensile, su fotografia, letteratura e software) come più popolari.

Mod (come me, del resto) scrive molto sulla tecnologia, cioè l’informatica, perché i suoi lettori vivono in un mondo in cui l’informatica è decisamente importante: dopotutto con il computer e la rete ci passiamo il 99% del tempo nostro di lavoro e il 75% di quello libero, in un blend tra fisico e digitale che non ha più confini. Tanto che uno dei saggi di Mod migliori e più letti, intitolato Fast Software, the Best Software, l’autore sostanzialmente trova il modo di definire la velocità come qualità profonda e intrinseca di un software, quella che manifesta la sua validità, oltre alla semplicità ed eleganza d’interfaccia (Nota: peccato solo che per scrivere utilizzi nvAlt e Ulysses anziché il “mio” iA Writer, e lo dico rendendomi conto chem anche con mem Mod tocca un tasto sensibile da hipster dello scribacchinismo pennivendolo. Devo ammettere infatti che le sue citazioni e le sue scelte si ripercuotono molto più in profondità di quanto non mi piace pensare, affondando all’interno della mia identità e del mio gusto per il digitale).

Le sue immagini, inoltre, sono sempre calibrate per rendere in maniera elegante e furba (cioè un po’ snob, direi), idee e concetti relativamente semplici:

Why not use the Simplenote desktop application? Because — it’s not quite as fast. We’re talking milliseconds, but it’s enough that you feel the difference. It’s the difference between the $1000 Japanese garden shears and the $150 garden shears. They both cut just fine, but if you work in the garden all day, you will (probably?) feel the difference.

Domani la marea delle newsletter in costante espansione potrebbe rapidamente volgere e trasformarsi in una secca in cui pochissimi riescono a sopravvivere, o quantomeno a farsi ancora leggere. Questo è sempre più vero per il mercato italiano, dove non si riesce a fare la pagnotta con niente di tutto questo. È stato sostanzialmente lo stesso anche con i blog, con i podcast, con i siti dedicati, adesso con le newsletter. Ci riescono giusto gli influencer e qualche youtuber, ma il rischio di ricadere nella cretineria e nel becerume dei mezzi di comunicazione tradizionale è troppo forte. E poi, diciamocelo chiaro: se le nicchie in percentuali sono sempre grandi uguali (lo 0,01%), la partita uno se la gioca dal punto di vista linguistico. L’inglese ha più parlanti dell’italiano, non si scappa. Ergo, un bacino che permette di sopravvivere anche nei periodi di secca.

L’assassino dell’e-mail
Probabilmente, però, la storia d’amore tra Internet e le newsletter terminerà quando arriverà una tecnologia in grado di soppiantare completamente la mail. Sembrava fosse stato così con il web (portali, home page, blog), gli Rss, i podcast. Adesso che ci stiamo dirigendo sempre di più – dicono – verso una rete fatta di suoni e di immagini più che di testi scritti (con i vari smart speaker), c’è chi teme addirittura per l’alfabetizzazione dei nostri discendenti, figuriamoci per le newsletter. Oppure l’AI, i robot, gli algoritmi, insomma i sistemi automatici di aggregazione (stile il muro di Facebook) basati sui nostri gusti e preferenze, faranno giustizia dei curatori di newsletter monoproprietarie.

A mio avviso, invece, qualcuno che faccia lo sporco lavoro di trovare cose che valgano la pena di essere lette ci dovrà essere e ci dovrà essere ancora a lungo. Noi padroncini della conoscenza ci troviamo a fare un lavoro tutto sommato non difficile (diventare giornalisti “è sempre meglio che lavorare”, se non si dimentica però che “richiede una certa disponibilità di tempo”, diceva Luigi Barzini Jr. ma in pratica è facile) perché scrivere cose in un italiano decente e che si fanno leggere non è troppo difficile, se ci si applica. Per questo credo che la produzione di newsletter continuerà, indefessa. E qualcuno che le leggerà, almeno in parte, ci sarà ancora per un po’ di tempo. Dopo, non so.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio