Negli Usa ricomincia il torneo di basket universitario

The Big Dance, il grande ballo. Pur senza Michelle, negli ultimi due anni in pista si è esibito pure il Presidente Obama, che di basket – si sa – è tifosissimo. Niente musica, se non quella di un pennarello nero che stride su un foglio bianco mentre depenna strani nomi di università da una gigantesca griglia, il cosiddetto bracket. Finché alla fine, da copione, di nome ne rimane uno solo: quelle del college campione NCAA. Il tutto, ovviamente, in diretta nazionale.

Negli Stati Uniti è iniziata la March Madness, il mese in cui un intero paese perde la testa per il torneo di basket universitario, che prende il via proprio in questi giorni. Per chi non ne ha mai sentito parlare si tratta di 64 squadre – da quest’anno son 68, ma quattro incontri preliminari ristabiliscono subito l’ordine – che affollano un tabellone a eliminazione diretta suddiviso in quattro aree, chiamate regional. Ogni regional ha le proprie teste di serie, da uno (la più forte) a 16 (la più scarsa). E via, si gioca: chi vince va avanti, chi perde va a casa (do or die, o ce la fai o muori, rende l’idea, no?).

Quest’anno le quattro teste di serie uno sono Ohio State, Kansas, Duke e Pittsburgh. Le ho elencate nell’ordine con cui hanno chiuso in classifica la stagione regolare. Quelli di Ohio State, i Buckeyes, durante l’anno sono stati considerati i migliori, hanno vinto 32 volte e perso solo due. Hanno un giocatore che sembra un fenomeno e si chiama Jared Sullinger. Kansas invece, i Jayhawks, può contare su una coppia di fratelli davvero bravi: di cognome fanno Morris, ma pure i nomi si assomigliano: Marcus uno e Markief l’altro, tanto che sulla maglia son stati costretti a scrivere fino alla quarta lettera del nome di battesimo (“c” per uno, “k” per l’altro) per poterli distinguere. Duke è la squadra campione in carica, e di nuovo si presenta tra le favorite. Ha un allenatore famoso e fortissimo che si chiama Krzyzewski, come uno scioglilingua e che d’estate invece di andare in vacanza allena anche i fenomeni della NBA, vincendo Mondiali e Olimpiadi con la Nazionale USA. In campo i Blue Devils sono proprio come il loro allenatore: bravi e antipatici, anche perché l’ateneo è privato e attira ragazzi ricchi e viziati (pure il figlio della Moratti). L’ultima numero uno sono i Panthers di Pittsburgh, che fan della difesa il loro biglietto da visita: batterli non è mai facile e vengono da uno dei gironi – in gergo conference – più forti: la Big East.

I tornei delle varie conference – che qualificano i vincitori direttamente al torneo NCAA, mentre per le altre squadre c’è da aspettare l’invito di un apposito comitato – hanno appena finito di incoronare eroi che ora tutti attendono nelle sfide senza futuro del tabellone a 64. Su tutti c’è Kemba Walker, il piccoletto di Connecticut che nel fine settimana ha incantato – lui, newyorchese del Bronx – il Madison Square Garden con canestri a ripetizioni e tiri decisivi. Subito dietro di lui (o davanti) viene Jimmer. Se cercate il giocatore-culto dei college USA in questo 2011 fermatevi qui. A Provo, nello Utah. Di cognome fa Fredette, è il capo-cannoniere di tutta America e gioca per i mormoni di Brigham Young. La sua “spalla” principale in campo, tale Brandon Davies, salterà il torneo NCAA per la sospensione infittagli dall’ateneo per aver violato il codice d’onore di BYU: Davies è stato ritenuto colpevole per aver fatto sesso con la sua ragazza.

Se Kemba, Jimmer e con loro tutti gli altri ragazzi (tutti tra i 19 e i 22 anni) che scenderanno in campo nei prossimi giorni sono le facce di questa fantastica “follia marzolina”, in America la regola ricorda inflessibile che se nella NBA conta il nome che sta sulle spalle della maglia (ovvero quello del giocatore) nella NCAA conta quello davanti (ovvero quello della scuola). Tra i college val la pena segnalare il ritorno al torneo di St. John’s, l’università più rappresentativa di New York, e l’irruzione nel tabellone (testa di serie 2 a Ovest) di San Diego State, ateneo la cui scarsa tradizione può tranquillamente essere imputata alla preferenza dei locali per le tavole da surf rispetto alla palla a spicchi arancione.

Se vi è venuta un po’ di curiosità e pensate di averci capito qualcosa, il passo successivo è scaricare dalla rete il vostro bracket (potete farlo qui: www.espnamerica.com/brackets) e divertirvi a eliminare, una a una, 63 delle 64 squadre che trovate già allineate pronte al via. Come voi faranno più di quattro milioni di americani che ogni anno sperano di disegnare il bracket perfetto, indovinando ogni singolo risultato. Il sogno è vincere il montepremi che viene messo in palio – al momento è pari a un milione di dollari su Yahoo! e a 14 milioni di dollari su Sportsbooks.com – ma scordatevi che possa accadere a voi: c’è una possibilità su 13.460.000 di poter azzeccare tutti i risultati solo dei primi due turni. È più probabile lanciare i dadi e ottenere 7 per 25 volte consecutive; o chiedere a un computer di scegliere a caso una persona in tutti gli Stati Uniti e vederlo estrarre due volte di fila la stessa.
Nessuno ha detto che sia facile, d’altronde, ma divertente di sicuro. Ed è ancora più divertente se lo fate mentre siete in ufficio. Gli americani, per esempio, mentre sono al loro posto di lavoro dedicheranno al proprio tabellone un totale di 8.4 milioni di ore, per una perdita di produttività nazionale stimata attorno ai 192 milioni di dollari. Paura che il capo s’incazzi? Tranquilli, hanno pensato anche a quello: ogni bracket che si rispetti ha un “Boss Botton” ben visibile accanto alla griglia del tabellone. Cliccatelo e magicamente squadre e risultati diventeranno un anonimo foglio Excel. Finché il capo non gira l’angolo.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).