Meno male che c’era Napolitano

Da tutto questo polverone sollevato intorno e contro il Quirinale solo tre cose emergono come rilevanti. La prima è la conferma dell’ingenuità di Mario Monti e dell’errore commesso a suo tempo nell’investire tanto su di lui. La seconda è il disperato bisogno di Forza Italia di marcare stretto Beppe Grillo, fino a confondersi con lui, con le sue battaglie, con i suoi toni, perfino con le sue fantasiose iniziative parlamentari. La terza è la scarsa memoria di un paese che sembra ogni giorno voler riscrivere la propria storia di un foglio bianco, evitandosi la fatica e la pena di ricordare i passaggi cruciali della crisi nazionale.

Allora magari servirà anche a qualcosa, questo “scandalo Friedman” sollevato dal Corriere della Sera: a dare ancora maggior valore e merito al presidio di lucidità, integrità e senso della responsabilità rappresentato in questi anni da Giorgio Napolitano.
Basta andarselo a riguardare tutto, il film di maggio, giugno e luglio 2011: la vigilia del precipizio. Altro che golpe, come strepita Brunetta sempre più somigliante ai peones grillini con i quali infatti fa comunella.
Nel giugno 2011 l’Italia politica parla solo e soltanto della irrimediabile crisi di credibilità del governo Berlusconi. Lui fa di tutto per dar ragione a chi pensa che dovrebbe mollare la poltrona sulla quale è inutilmente inchiodato. Mentre i dati economici nazionali crollano, al G8 di Deauville sbalordisce i leader mondiali avvicinandosi a Obama e agli altri per denunciare «la dittatura» che sarebbe ormai diventata l’Italia dei giudici. L’Europa sollecita una manovra correttiva da 40 miliardi di euro che Tremonti fatica a imporre, in una versione edulcorata, in consiglio dei ministri. Napolitano chiede alle opposizioni di collaborare in parlamento: emendare, correggere, non aggredire una maggioranza che potrebbe collassare. Loro lo fanno. Durante il dibattito alla camera il premier si addormenta ripetutamente: è un uomo in caduta libera. Si scrive apertamente di ipotesi di governi tecnici, o “del presidente”. Intanto anche gli elettori dicono la loro, ad alta voce: alle comunali di fine maggio il centrosinistra fa cappotto, da Milano a Napoli, da Torino a Trieste a Cagliari; a metà giugno i referendum vengono letti da tutti i commentatori come un plebiscito contro il governo che ha puntato sul mancato quorum. Quel «consenso popolare» di cui si parla oggi allora era già evaporato.
Tutto questo prima dell’esplosione dello spread. Che sarà nient’altro che l’inevitabile voto di sfiducia da parte della comunità internazionale nei confronti di un paese palesemente non-governato.

Fu una manovra? Un colpo di stato? Fu una vera emergenza nazionale, diciamo meglio. Nel pieno della quale, per fortuna, l’Italia ebbe a palazzo Koch e al Quirinale chi tenne la testa a posto. Rileggete cronache e commenti: sono Draghi e Napolitano che cercano di raffreddare la crisi e svolgono un enorme lavoro di supplenza rispetto a un governo che non esiste già più da tempo. Verranno poi la lettera della Bce, l’incapacità di rispondervi in maniera adeguata, la paura, l’avvitamento di Berlusconi che lascia campo libero alle ingerenze franco-tedesche. Infine la resa di novembre. Tardiva. E l’avvento di Mario Monti.

Napolitano ha predisposto tutto ciò in spregio della democrazia e della sovranità popolare? Ma per favore. Il centrodestra teneva l’Italia in ostaggio grazie alla blindatura di un parlamento – ne abbiamo la conferma oggi – eletto con un sistema anticostituzionale di cui Berlusconi e Bossi erano stati ideatori e beneficiari. Era lì che si consumava lo spregio della democrazia, col sovrappiù della incompetenza e della irresponsabilità di chi si guardava intorno e vedeva soltanto «ristoranti affollati e charter per le vacanze pieni».
Poi si può discutere del rimedio. Che allora venne considerato da tutti salvifico, anche dal Pd che si inchinò mal volentieri a Napolitano, a Monti e alle larghe intese. Ma la storia che comincia nel novembre 2011, e che in qualche modo dura tutt’oggi, è la storia di un affannoso tentativo di salvataggio da parte di un pezzo di establishment che non poteva più fidarsi e affidarsi alla “normale” dialettica politica.
Di questa storia Monti è stato protagonista: forte nelle sue competenze, convinzioni e credenziali europeiste; debole nella sua improvvisata ambizione politica e nella sua vanità personale. Se i partiti hanno poi potuto almeno provare (senza riuscirci) a riprendere le redini della situazione, è soprattutto grazie alla transizione montiana, a quelle parziali e contestate riforme che, guarda caso, sono state al massimo corrette ma non revocate da nessuno.

Oggi l’era dei governi tecnici ci appare deleteria. Siamo anche già esausti dell’era delle larghe e delle medie intese. Il Pd è di nuovo a rischio di compiere scelte emergenziali, invece di percorrere la via maestra della conquista del consenso popolare. Napolitano, suo malgrado, è ancora nella cabina di comando della crisi italiana.
Tutto e tutti sono criticabili. La storia però va lasciata agli storici. I reati ai magistrati e i segreti agli occultisti. La vicenda politica dell’estate 2011 è fin troppo chiara, trasparente, comprensibile, e ci rammenta senza equivoci una cosa sola: quale disastro sia stato, e sarebbe ancora, consegnare questo paese nelle mani della destra di Silvio Berlusconi.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.