Musica elettorale

Ero sicuro che sarebbe morto. Mentre lo guardavo, la notte del 28 marzo 1994, pensavo che saremmo finiti dentro al telegiornale come un caso da presepe italiano franato in tragedia. Rappresentante di lista area progressista, si era sentito male nel seggio dove mi trovavo in qualità di scrutatore: troppi voti per Forza Italia. Troppi.
Lo osservavo mentre stendeva le gambe su una delle sedie dove abitualmente gli alunni studiano gli affluenti dell’Adige, la camicia slacciata sulla maglietta bianca d’ordinanza (uno dei grandi segnali iconici sopravvissuti, insieme alla moka, nella sinistra “vera”) e teneva gli occhi a mezz’asta. A fargli aria con un poco beneaugurante registro delle assenze, una ragazza mite e sofferente soprattutto per l’esito dello spoglio elettorale che, immagino per una forma lessicale di disprezzo, si ostinava a pronunciare Forza Italia in maniera simile a Forza Itaglia. La g in più era il suo rifiuto alla Storia che si compiva suo malgrado quella notte.

Di fianco a me, con le mani raccolte dietro la schiena, un carabiniere completamente disinteressato a ogni pur latente forma di vita. Sui muri disegni a tempera. Il tema generale doveva essere l’inquinamento e in uno c’era una fabbrica che buttava fuori fumo nero e un bambino che scappava atterrito, con la faccia vagamente urlo di Munch, ma anche velata da un’insolita somiglianza con Enzo Ghinazzi.
In questo semitragico contesto, che cosa mi stavo domandando io, allineato a un appuntato probabilmente in stato di pietrificazione? “Quale sarà la colonna sonora adatta a tutto questo?”. Lo so, è una deviazione, ma io credo che si viva soprattutto per avere canzoni adeguate di sottofondo e quindi mi interrogavo su quali fossero quelle corrette per una situazione simile.

A ventiquattro anni di distanza, e sul finale della campagna elettorale, mi pare che anche il “pre” musicale vada investigato. Il suono dei giorni prima.
Voglio dire, cosa potrebbe sollevarci dal semplice fatto che la miglior campagna elettorale possibile sarebbe non farla del tutto (tanto si vota come se fosse un derby, per appartenenza o odio e indipendentemente da qualsiasi svolta proposta dall’attualità, no?)? Chi ci potrebbe ripagare delle abolizioni e dei tagli non praticabili?
Bè, questa è facile: Dionne Warwick con Promises, Promises.

La divina Dionne, proprio lei. Le promesse, promesse sono d’amore, più che elettorali e portano le firme dorate di Burt Bacharach e Hal David, binomio sacro della sartoria musicale d’eccellenza. La canzone, del 1968, scritta originariamente per l’omonimo musical di Broadway, basato sul film L’appartamento di Billy Wilder, che vedeva per protagonista Jerry Orbach (sì, quello di Law & Order), divenne un hit solamente dopo l’interpretazione di Dionne. Concentratevi su ogni ingresso strumentale (ascoltatela in cuffia, è come vincere un Tetris orchestrale, tutto scende e si incastra alla perfezione) e dimenticherete ogni strepitio di propaganda. My kind of promises can lead to joy, canta la musa di Burt, e a questo si può credere.

Per rimanere in tema, non mi è mai stato chiaro se parli veramente di giorno delle elezioni o di qualche sottotesto erotico a me (povero me) ignoto, Election Day degli Arcadia.

Il brano è abbastanza terribile, ma può essere utile in caso soffriate di anniottantite. Vale a dire se andate in crisi di astinenza 80’s e non avete sottomano il cofanetto di Drive-In, potete sempre guardarvi il video degli Arcadia, superband con tre Duran Duran e “comprimari” del calibro di Sting, Herbie Hancock, Grace Jones e David Gilmour. Camionate di modelle, sintetizzatori, erotismo spray e una manciata di cotonature che ci saranno costate una voragine nell’ozono. All’epoca destò scalpore il ritorno al nero della capigliatura duranica (ooh, the 80’s…). Un verso dice all’incirca “toglimi la maglietta e prega, stiamo arrivando al giorno della ri-elezione”, il che proietta al contempo una visione profetica e una perversione sessuale inattesa. Il coito da prevedibile stallo governativo (aiuto).

Indecisi e incollati allo schermo sperando di avere un’illuminazione durante un talk-show? Bè, sento il dovere di ricordarvi che The Revolution Will Be Not Televised, come ammoniva nel 1974 Gill Scott-Heron nella sua fenomenale versione con band al completo.

Funk soul e un parlato impetuoso pre-hip hop che ci ricordava che “non ci saranno servizi speciali al telegiornale dopo le 23”, “la rivoluzione non ritorna dopo una breve interruzione per la pubblicità” e “la rivoluzione non la daranno alla televisione, non sarà una replica, la rivoluzione sarà in diretta”. Già, e come la mettiamo con la Maratona Mentana? Ci aveva pensato Gil Scott-Heron? Chi porta la damigiana di caffè? Chi inchioda il tasto su La7 con lo stecchino come gli scherzi del campanello piazzati alle tre di mattina che ti viene l’infarto? Se non ce la fate e non siete ancora in overdose anni ottanta, può risultare utile, più che altro come incentivo di tenuta, All Night Long (All Night) di Lionel Richie: “Alessandra Sardoni, fiesta forever”.

Più canonico il Gaber de Le elezioni (1976),

con il tocco leggero alla Calvino (uno che sugli scrutatori la sapeva lunga) e l’indimenticabile chiusura di “con cura piego le due schede e guardo ancora la matita così perfetta è temperata…io quasi quasi me la porto via. Democrazia!”.
Approccio differente al sacro rito della preferenza in cabina, quello della Paolino Paperino Band, gruppo punk modenese oggi riformatasi, che invitava nel 1991 a infilare nella scheda “una fetta di salame o prosciutto con il ketchup o con lo strutto”.

Dissenso gastronomico totale.

Se siete stati almeno una volta scrutatori, saprete che sulla scheda si trova di tutto, scritto e inserito. Nella mia personale classifica, spiccano tra l’oggettistica un cerotto applicato e un adesivo della Pro Vercelli, mentre tra le preferenze Suor Germana e Big Jeff (l’amico australiano del bambolotto Big Jim. O almeno penso si riferissero a lui…). Il più drammatico fu però un “Vergonia!!!” scritto con calligrafia incerta lungo tutta la scheda, inequivocabile testimonianza di sofferenza e scolarizzazione incerta al tempo stesso.
Forse proprio la memoria di tanti attentati alla democrazia minò definitivamente la salute del mio rappresentante di lista nel 1994.

A proposito, esiste anche un gruppo che si chiama proprio La rappresentante di lista,

sono toscano-siciliani e il loro folk pop sghembo è appropriatissimo per questi giorni vagamente surreali. Qualcosa succederà, o forse no. Ne usciremmo, o forse di nuovo no.

In ogni caso all’epoca sopravvisse anche il mio rappresentante di lista, che si rialzò come uno zombie reduce dall’esplorativa INPS e portò a termine con dignità il suo compito istituzionale. Sulla sua sedia si accomodò il carabiniere ascetico e scrutò il nulla. La ragazza di Forza Itaglia accennò a brevi ma costanti fremiti di crisi isteriche. Ma a metà notte chiudemmo il seggio con regolarità e andammo a casa, fischiettando ognuno la propria canzone.

La mia, data la fatica fisico-spirituale, non poteva che essere

Dai. Possiamo farcela tutti.

Maurizio Blatto

È cresciuto felice all’interno della sua collezione di vinili. Scrive per Rumore, ha pubblicato L’ultimo disco dei Mohicani (la versione Abatantuono di Alta Fedeltà) e MyTunes (la vita che invade la musica in 77 canzoni). Ha sacrificato una possibile carriera da avvocato in nome di una devozione assoluta verso i dischi (tutti i dischi). Non se ne pente.