A caccia del moto perpetuo – Parte II

Riassunto della puntata precedente: una coppia di intrepidi orologiai si cimenta in innovazioni spericolate. Come quella del Reverso, l’orologio che può essere girato davanti-indietro senza bisogno di toglierselo dal polso, dedicato a tutti gli amanti del Polo. E fu un successo mondiale. Ma i due avevano in realtà già lavorato a un progetto straordinario. Entra in scena l’ingegner Jean-Leon Reutter.

Per riuscire a cacciare il moto perpetuo, bisogna lasciare il reame degli orologi da polso e fare un salto in un mondo molto più antico e differente. Quello degli orologi con il pendolo.

Il pendolo è la tecnologia con la quale l’orologio attinge una forma di energia che gli consente di tenere il movimento in azione e di contare efficacemente il passaggio del tempo. Su come questo avvenga in dettaglio, se ne può parlare a lungo. Basta dire qui che il pendolo come sistema di propulsione per gli orologi meccanici è stata una genialata dell’olandese Christiaan Huygens, che l’ha anche brevettato nel 1656. Il pendolo, come aveva notato Galileo e di conseguenza come ci hanno insegnato alle elementari, ha caratteristiche di regolarità parecchio interessanti per un orologiaio. Il pendolo è un grave di una certa massa legato alla metà libera della barra o corda che è incernierata dall’altro lato a un fulcro. Nel suo muoversi, cioè oscillare, ci mette sempre lo stesso tempo, che si chiama periodo. E quindi questo andare avanti e indietro viene bene per seguire, tramite uno “scappamento” (il meccanismo che converte il movimento del pendolo in rotazione degli ingranaggi e quindi delle lancette che segnano l’ora), l’avanzare del tempo. Il problema del pendolo è che è pensato per restare sempre nello stesso posto, bloccato il più possibile: non si può portare a giro. Da qui l’invenzione del sistema basato su bilanciere, che funziona sempre, anche a testa in giù: è quello che sta dentro il vostro orologio meccanico da polso, se ne avete uno.

Infatti il pendolo risente oltre che della posizione anche delle vibrazioni (va da sé) e addirittura dell’escursione termica, poiché questa fa dilatare o contrarre i materiali usati per il pendolo stesso (corda e peso che lo alimenta, o la molla), alterandone la lunghezza o la massa e quindi il periodo, con spiacevoli effetti sulla regolarità finale dell’orologio. Generazioni di orologiai si sono sbizzarriti a progettare pendoli che ovviassero a questi problemi: in tempi di illuminismo e di rivoluzione industriale, la meccanica degli ingranaggi e dei pendoli era l’informatica di oggi. I migliori hacker stavano tutti lì, a sbizzarrirsi con queste cose tutte fatte di ingranaggi, molle, pesi e contrappesi. E, lasciatevelo dire da uno che ha fatto entrambe le cose, l’alienazione che deriva dallo smontare e rimontare per giorni un orologio è simmetrica a quella che si prova passando le notti a programmare in qualche linguaggio di alto livello. Se dovessi scrivere un romanzo Steampunk, il protagonista non potrebbe che essere un orologiaio.

Tra pendolo e bilanciere, però, è stata inventata anche altra roba. In particolare, il pendolo a torsione, che è poi quello usato negli “orologi da tavolo con le palle” (mia personale definizione). Non so se avete presente: l’orologio di solito è dentro una cupola di vetro (soprattutto per evitare gli effetti atmosferici di cui sopra per il pendolo tradizionale) e ci sono queste sfere di metallo che ruotano orizzontalmente attorno al fulcro dove c’è il meccanismo dell’orologio vero e proprio. Le sfere sono sospese su di una molla a torsione e fanno un movimento lento, che non è altrettanto veloce né rispetto al pendolo né rispetto al bilanciere. Però è un movimento che richiede pochissima energia per funzionare: vanno avanti letteralmente per mesi con una sola carica.

Il pendolo a torsione ci viene comodo perché venne utilizzato per la più geniale invenzione sul moto perpetuo che si sia mai vista. I nostri due orologiai della Vallée de Joux, Edmond Jaeger e Jacques-David LeCoultre, non erano gli unici ad avere il pallino dei movimenti e della meccanica, come si sarà capito. C’era (e forse c’è ancora) un bel po’ di gente affascinata da queste cose. E se uno si occupa di “queste cose” il tema con il quale si confronta tutti i giorni è l’attrito. Impara la scienza (o per meglio dire: l’arte) della tribologia: quella scienza cioè che studia l’attrito, l’usura e la lubrificazione di superfici che vengono strusciate l’una contro l’altra (lo so, l’ho già scritto qui). Ci sono interi settori industriali costruiti attorno a questa scienza. Ne parlavo per gli aerei, la loro manutenzione e il ruolo dell’attrito, ma si potrebbe parlare anche dei grandi produttori di cuscinetti a sfere come SKF, che poi sono il singolo componente che ha rivoluzionato la storia dell’umanità (ne parliamo un’altra volta, lo so, lo so, ci vuole un po’ di tempo, portate pazienza).

Chi studia e lavora con queste cose, non è come me e voi. No, lui vive in un mondo da ingegnere: a metà tra la matematica e la fisica, tra la teoria e la pratica. Quando sei ingegnere dentro, teorizzi nel mondo delle astrazioni con i piani privi di attrito che consentono il moto perpetuo, ma poi devi realizzare oggetti che stanno in sistemi con gradi di tolleranza adeguati, sennò non vanno, non funzionano. In Scienza delle costruzioni, per dire, si va di approssimazioni successive per calcolare le strutture, tipicamente riducendo i numeri dopo la virgola e arrotondando per eccesso. Se si facessero i calcoli con troppi decimali, poi entrerebbe l’errore, non ci sarebbe tolleranza e salterebbe tutto, cioè crollerebbe il ponte. Non sarebbe bello, ed è stato un problema che si è posto anche di recente, quando sono arrivati i primi programmi di progettazione su computer per ingegneri (che invece facevano calcoli con troppi decimali).

Divagavo. Mi succede quando scrivo del moto perpetuo. Succede a tutti. Perché tutti sognano il moto perpetuo. Alla fine, è la cosa più vicina alla vita artificiale: lo costruisci, lo fai partire, e lui comincia a muoversi e non si ferma più. Che poi sia intelligente o meno, dipende dal livello, dalla quantità e dalla quantità delle complicazioni che il Grande Orologiaio Che Sta Nei Cieli è riuscito a metterci dentro. Tra parentesi, l’idea che Dio sia un orologiaio da un punto di vista linguistico è solo una metafora ma da un punto di vista sociale è un delizioso costrutto: rispecchia l’idea condivisa che abbiamo della precisione, della razionalità. Certamente Platone e Aristotele non pensavano che Dio fosse il Grande Orologiaio, semplicemente perché non avevano orologi meccanici e non avevano il concetto di orologiaio. Neanche Sant’Agostino, se è per questo (eppure, su Dio ha avuto modo di scrivere parecchie cose).

Invece, quando alla fine del Seicento agli artigiani si sostituiscono gli scienziati, quei tizi che cominciano a guardare la natura come scienza (anziché dedicarsi alla pura speculazione metafisica), ebbene le cose cambiano. In quell’epoca la matematica è il linguaggio parlato della scienza ma è l’orologio uno dei primi strumenti utilizzati. Serve a fare misura (fondamentale per il metodo sperimentale della neonata scienza) e soprattutto serve per acchiappare le scoperte astronomiche nell’alto dei cieli e per la navigazione che porta alle altre scoperte più prosaicamente sulla superficie della Terra. Non è finita. A fianco degli scienziati, nei loro laboratori in gigantesche ville, ci sono spesso orologiai che sanno lavorare di precisione con strumenti eccezionali e già che ci sono tengono anche in buone condizioni la pendola di casa.

Così, quando scrivono i loro trattati, i filosofi e i naturalisti prendono a prestito dal mondo che è loro familiare l’immagine per esprimere lo spirito del tempo. Se l’orologiaio è la rappresentazione vivente della più raffinata tecnica meccanica, in quella meravigliosa costruzione che è l’universo mondo, se c’è un creatore sublime esso è il Grande Orologiaio. Una teoria interessante, che a Sant’Agostino probabilmente sarebbe piaciuta.

Intanto, il moto perpetuo l’ingegner Jean-Leon Reutter pensava di averlo creato davvero. Ma non sapeva cosa farsene, come sfruttarlo con successo. Nel 1928 ne vendette allora il brevetto ai nostri amici di Jaeger-LeCoultre. Si tratta di una cosa che solo a scriverla mi tremano le dita sulla tastiera: Reutter si vendette l’Atmos.

Non ne sapete niente? Mai sentito prima? Male, malissimo, perché all’epoca si pensava all’Atmos come a un prodotto degno di una startup, una di quelle cose che potrebbero cambiare il mondo come il Web o Google. Dicevi Atmos e si accendevano gli stessi neuroni che oggi fiammeggiano guardando la quotazione in Borsa di Apple e domani quella di Facebook.

Cos’è Atmos? È un orologio che non ha bisogno di batterie, di pannelli solari, di corrente elettrica. Di nessun tipo di fonte tradizionale di alimentazione. Ed è super-ecologico, perché comunque consuma pochissimo: ne occorrerebbero 60 milioni per accendere una lampadina da 15 watt. Ma come si fa a caricarlo? Da dove si approvvigiona l’energia? In buona sostanza: come diavolo fa a funzionare?

Semplice. Una barretta di vetro molto sottile, ripiena di mercurio e incapsulata in un mantice è il cuore dell’apparecchio. Il mercurio è sensibile ai cambiamenti di temperatura, come saprà chiunque sia abbastanza vecchio da aver visto un termometro non digitale. Al mercurio gli basta una differenza di un grado e si muove di parecchio: se fa più caldo si dilata, se fa più freddo si contrae. Questo movimento si ripercuote sulla membrana del mantice (che a sua volta è sensibile alla pressione atmosferica), che è la fonte di energia del meccanismo. Non serve una carica per la molla, un pendolo che oscilli, un contatto elettrico che lo alimenti. Non è ovviamente un moto perpetuo, anche se magari avrebbe preso in contropiede Leonardo da Vinci (uno che con il moto perpetuo ci si era cozzato parecchio) e lo avrebbe lasciato per un po’ a bocca aperta. Ma è in ogni caso una roba da vincerci il Nobel della meccanica applicata, se solo esistesse.

Il nostro Jean-Leon Reutter sapeva di aver avuto una buona idea, aveva creato un sistema di alimentazione a bassa potenza ma in sostanza indipendente, perché di fluttuazioni di temperatura e di pressione atmosferica, banalmente tra notte e giorno, ce ne sono ovunque, anche in una stanza chiusa. Quindi, si mise a lavorare sull’altro aspetto fondamentale della sua invenzione: il meccanismo dell’orologio adatto per essere collegato al suo generatore di energia. Prese un orologio particolare, basato sul pendolo a torsione, chiamato “400 giorni” o “Orologio dell’anniversario”, perché è costruito attorno a un meccanismo così efficiente che va caricato in pratica solo una volta all’anno. Il segreto di questi orologi è che l’oscillazione del pendolo a torsione è molto lenta, di solito dura più di 15 o 20 secondi. E lo scappamento, cioè il sistema per trasferire la torsione agli ingranaggi, restituisce ad ogni scatto con un colpetto buona parte dell’energia impiegata. Quindi, il meccanismo va avanti parecchio: a guardarlo è un piacere.

Reutter si mise di buzzo buono, smontò e rimontò l’orologio che ha comprato – molto popolare all’epoca ma anche decisamente costoso – per cercare di ridurre ulteriormente gli attriti e quindi il bisogno di energia. In più, oltre a modificare l’orologio, piazzò il suo generatore atmosferico nel cuore dell’apparecchio e realizzò un macchinario per contare il tempo estremamente preciso e praticamente eterno, in termini di alimentazione. La pressione atmosferica e la temperatura diventarono i due sistemi per alimentarlo, da cui il nome “Atmos” (forse “Temps” pareva brutto). Fu necessario cambiare il tipo di sostanza usata perché il mercurio dava problemi e il nostro Reutter ci piazzò allora una sostanza ancor più sensibile ai cambiamenti di temperatura: l’ammoniaca prima e il cloruro di etile poi, che fu un miglioramento della sua idea ancora più potente di quanto non si pensi. Nella capsula, infatti, c’era questa sostanza che passava costantemente dallo stato gassoso a quello liquido, seguendo pressione e temperatura atmosferica. Questo movimento non faceva altro che alimentare la molla principale su cui erano installate le sfere del pendolo a torsione, alimentando l’orologio.

Il passaggio della temperatura da un grado all’altro, per dire dai 15 ai 16 gradi, bastava per alimentare l’Atmos per due giorni. Reutter provò subito a mettere in produzione il suo apparecchio incredibile, ma eravamo in anni di crisi, c’era l’inflazione, l’Europa era incasinata (negli Usa crollerà la Borsa nel 1929, per dire, e inizierà la Grande Depressione), Hitler stava utilizzando proprio la via dei guai economici della Germania per prendere il potere, e il buon Reutter evidentemente era meglio come ingegnere che non come imprenditore. Quindi, decise di mollare la palla. Aveva prodotto un po’ di orologi rimettendoci un sacco di soldi, doveva sbrigarsi a vendere. Entrò così in scena il direttore generale della Jaeger-LeCoultre (vale a dire Jacques-David LeCoultre) che un giorno, camminando per le strade di Parigi, la leggenda narra che vide esposto in un negozio uno dei pochi Atmos prodotti. Entrò, lo comprò, se lo portò a casa e lo smontò per tutta la notte, cercando di capire come funzionasse. Ne intuì subito la genialità ma, contemporaneamente, ne vide anche i possibili sviluppi: come serializzare la produzione, come ridurre i costi reingegnerizzando il prodotto. Dove tagliare, dove aumentare, come guadagnare. Rintracciò Reutter e gli fece un’offerta buona. Questi vendette il brevetto ed uscì così di scena.

La Jaeger-LeCoultre si mise a lavorare, investì soldi e tempo nel miglioramento del prodotto e nel 1936 aveva realizzato un orologio storico, il nuovo Atmos. In 50 anni ne ha venduti mezzo milione. È stato un successo spettacolare, eppure sotto la linea del radar: in pochissimi ne hanno sentito parlare, ancora meno sono quelli che lo posseggono. Io stesso mi chiedo ogni tanto chi possa avere questo orologio in casa, dove lo tenga, cosa pensi quando lo guarda. Magari si chiederà che ore sono, forse si lamenterà se non è abbastanza preciso, oppure si stupirà della genialità del meccanismo e delle intuizioni che ci sono dietro, della ricerca tecnologica, delle scelte imprenditoriali, della complessità e allo stesso tempo della semplicità dell’idea dietro al progetto. Oggi siamo sempre lì che parliamo di startup, di innovatori, di cose per forza 2.0, ma poi nell’Ottocento e all’inizio del Novecento era pieno di questi giovanotti col pizzetto e il gilè che restavano chiusi nei sottoscala per settimane, a smanettare, alcuni per la meccanica, altri per la chimica e altri ancora per la biologia.

Jaeger-LeCoultre come azienda intanto ha continuato ad andare avanti, con alterne fortune. È stata la produttrice dei primi orologi per le grandi maison della gioielleria come Cartier che volevano entrare in questo settore, ha realizzato calibri di meravigliosa complessità e soprattutto ridottissime dimensioni (mai sentito parlare del Calibro 170? Lo so, lo so che mi ripeto) e alcuni tourbillon davvero virtuosi. Ma di che cosa sia il tourbillon, la complicazione sublime di ogni segnatempo, di chi sia Abraham-Louis Breguet e del perché abbia sconfitto niente di meno che la forza di gravità, direi che ne parliamo la prossima volta.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio