Moriremo indignati

Sto cercando di capire quando esattamente la denominazione di “indignados” è piovuta sul movimento spagnolo che occupò Puerta del Sol a maggio, seppellendo gli altri nomi che quella iniziativa si era data (“15M”, “Acampadasol”, “Democracia Real Ya”). Il mio sospetto è che gliel’abbiano attaccata i media (vedi il ps sotto), ma magari no: quello che è sicuro è che i media l’hanno preferita, e una parte del mondo l’ha adottata. Ma è interessante notare che negli Stati Uniti, da dove è stata rilanciata la protesta che è diventata mondiale sabato (ci eravamo stati attenti, qui, e si confermano quelle riflessioni), il nome scelto è quello di “Occupy…”, e così anche a Londra.

La mia illazione è che ci sia un nesso tra l’organizzare proteste che si esauriscono in poche ore di corteo e che si autodefiniscono di “indignati” e i loro fallimenti. Come scrivemmo sul Post, perché una cosa duri e abbia seguito ci vogliono pazienza, impegno e costanza, e non basta internet. E ci vuole di essere guidati da un desiderio costruttivo di bene comune che batta i mali e i nemici con la forza di se stesso e dei suoi progetti e della sua volontà: quando la sconfitta dei nemici diventa invece mezzo e fine e il tema prevalente del progetto, le cose nel migliore dei casi finiscono in niente.

Dell’autocompiacimento fallimentare dell’”indignazione”, ho scritto molte volte, più di quante mi ricordassi, vedo. Nel 2004:

A un certo punto qualcuno cominciò a magnificare le virtù dell’indignazione: dapprima aveva forse un senso, a difesa dall’indifferenza e dal quieto vivere. Poi l’indignazione divenne uniforme permanente, bandiera da taschino, tic. Dilagarono le frasi fatte: “io sono uno che sa ancora indignarsi…”, eccetera. L’indignazione si scatenò contro tutto e tutti, perdendo il senso della misura, confondendo gravità e stupidaggini.
Oggi è pieno di gente che si indigna, che si incazza, che alza la voce, contro i pretesi soprusi arbitrali, contro le ZTL, contro i reality show, contro le opere di Cattelan, contro un articoletto a pagina 34, contro il divieto di fumo, e altre mille. Non sono ipocriti, non sono tromboni (anche se spesso il loro rancore è incanalato da certi trombone-à-penser): si incazzano sul serio. Ci stanno male. Dove andremo a finire.
Ci sono dentro un istinto naturale a pensare che ti stanno fregando, e una regressione conservatrice di certe persone di sinistra unito al solido benpensantismo di certe persone di destra. E un conformismo inconsapevole verso alcune opinioni maggiori. E probabilmente molte altre cose. Ma è sempre stato così? La gente è antropologicamente incazzata?

Nel 2006 citai questo commento di Lexington sull’Economist, che parlava dello stato di indignazione permanente degli americani (che però ne capiscono la sterilità, non adottandone il nome). Nel 2010 segnalai la foga aizzaforconi di Di Pietro che celebrava il cliché della “capacità di indignarsi”. Quest’anno ho ripreso Francesco Piccolo, e Giovanni Robertini, che lo avevano spiegato molto bene: indignatevi meno.

La verità è che se c’è una cosa di cui l’Italia (o almeno quella parte del paese alla quale dovrebbe rivolgersi Hessel) non difetta, è l’indignazione. Se c’è una cosa che la metà della popolazione italiana, dal 1994, ha fatto, è esattamente questa: si è indignata. Se c’è un sentimento che la sinistra italiana in ogni sua forma e incarnazione ha espresso, è l’indignazione.
Nella sostanza, l’unico. Oltretutto, deve trattarsi di un sentimento di cui nemmeno si riesce ad avere consapevolezza, visto che dopo diciassette anni, arriva un libro che si chiama Indignatevi! E tutti urlano: ecco cosa bisogna fare!
Il risultato è che l’indignazione – lo testimonia la storia di questi anni – non ha generato nient’altro. E non è un caso, perché indignarsi vuol dire sentirsi estranei a ciò che accade davanti ai propri occhi; è una reazione civile, ma che respinge ogni coinvolgimento nella realtà. Quindi, al contrario di ciò che sostiene Hessel, vuol dire tirarsi fuori da quello che accade. Non partecipare mai fino in fondo.
Se per partecipazione si intende stare dentro le cose e lavorare per cambiarle, allora il vero slogan che servirebbe adesso, dopo tutto questo tempo, è: Basta, non indignatevi più!

E oggi che la bella manifestazione di sabato a Roma sembra già essere rientrata nei ranghi – ma spero di no – mentre a Londra da quella è nata una nuova occupazione e quelle negli Stati Uniti vengono rinnovate, torno a sospettare che non si cambi il mondo a forza di indignazione, e nemmeno usando l’argomento fondato che qui da noi ci sia più da indignarsi che in altri posti. La famosa alternativa non si può solo chiederla ai partiti, sta nelle teste. Mentre qui siamo tutti d’accordo: tutti indignati.

p.s. grazie a Massimiliano vedo questo passaggio dell’Infedele (minuto 6) in cui i responsabili delle proteste spagnole contraddicono Lerner e gli spiegano che «noi non abbiamo detto “noi siamo gli indignados”: è il nome che i media hanno detto per noi, per fare capire a tutto il mondo nel contesto del libro di Stephan Hessel».

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).