Mai “gridare al” lupo

L’inchiesta di Repubblica sul lavorìo di alcuni dirigenti Rai ai danni della Rai stessa per fedeltà nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi interessi è ai miei occhi un esempio lampante delle conseguenze negative che prima o poi arrivano se si perde rigore nel fare le cose bene: in questo caso in termini di perdita di credibilità su temi e storie che invece ne meriterebbero.

Repubblica sta infatti lavorando sulle intercettazioni dell’inchiesta sul fallimento di Hdc, la società di Luigi Crespi, e da quello che è dato leggere c’è materia per denunciare il sabotaggio ripetuto degli interessi della Rai da parte di persone che avrebbero invece dovuto difenderli. Ci sono elementi che suggeriscono severi giudizi morali  e umani su quelle persone, e potenzialmente ci sono elementi per contestazioni molto pesanti da parte dell’azienda.

Eppure, come avrete notato, non ne sta parlando nessuno. Per due ordini di ragioni, secondo me: uno giusto e uno sbagliato, ma entrambi ricadono sulle spalle di quella che a sinistra – e a Repubblica – in molti rivendicano da tempo come una battaglia che non debba conoscere sottigliezze, di fatto col fine che giustifica i mezzi, senza accorgersi che quei mezzi – il mezzo è il messaggio – hanno indebolito il fine e sono diventati spesso simili a quelli del nemico.

I due ordini di motivi che indeboliscono l’inchiesta sono: uno, la costruzione sbilenca e artificiosa degli articoli, in cui inconsistenti virgolettati spesso di pochissime parole – che da sole sono genericissime – sono mescolati a ricostruzioni arbitrarie e personali da parte degli autori dell’articolo, alle quali non è offerto nessun sostegno. Molta letteratura, la “struttura Delta”, citazioni di Conrad, clima da Spectre: tutte cose che al lettore fanno sospettare manchi la ciccia, invece che il contrario. Quando è il caso di pubblicare delle intercettazioni integrali pesanti e stringenti, i quotidiani non si tirano indietro: stavolta è tutto filtrato, tutto pezzetti di un mosaico sghembo e spesso incomprensibile. Come se il lavoro del giornalista ultimamente possa solo scegliere tra la semplice trascrizione di atti giudiziari e la creazione di storie, senza ritrovare più il suo ruolo di selezione, aggregazione e spiegazione affidabile dei documenti e delle fonti.
Due, se hai gridato al lupo un milione di volte al giorno senza nessuna gerarchia sui lupi, tramutando in lupo ogni ombra intravista da lontano, anche quando poi arrivasse il vero lupo la gente gira pagina. Vuole di più, le hai alzato l’asticella, per muovere interesse e critica sei costretto a mostrare branchi di lupi, stormi di lupi dal cielo, greggi di lupi travestiti da pecore, vulcani che eruttano lupi.

Quindi così stiamo, grazie alla pratica tanto condivisa e promossa in buona parte della politica e dell’informazione di sinistra di “non stare troppo a sottilizzare”. C’è un’inchiesta giornalistica che ha probabilmente un fondamento e può mettere sotto accusa diverse persone di responsabilità nel servizio pubblico e nella politica, e non siamo in grado di capire quale sia la sua reale sostanza e tendiamo a vederla con disincanto e stanchezza, incapaci di farcene un’opinione chiara. Né gli altri media o la politica sono tentati di prenderla in considerazione. Una generale perdita di credibilità ha ormai colpito quasi tutti i media, sia per macchinadelfango che per autolesionismo, e per i lettori ci vuole ormai un centinaio di bussole.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).