Magia e depressione

È tutto lì il problema: le parole. Nella società evoluta che immagino io non si parla più, tutto è fondato sulla triade: vedo, intuisco, agisco. Naturalmente (nella società evoluta) lo sguardo è complesso, l’intuito profondo e l’agire coraggioso. Noi parliamo parliamo. Ma che parliamo a fare? Senza considerare che scienze cognitive hanno mostrano che cadiamo in fallace argomentative. Di continuo. Spesso proprio a cause delle parole. Le conseguenze sono serie.

Perciò, stai con gli amici, che si fa che non si fa? e andiamo a mangiare, in un buon ristorante (mi raccomando) e quale si sceglie? Ristorante biologico. La parola no, biologico. Già così parte la fallacia argomentativa, se coltivi senza pesticidi, erbicidi e concimi chimici tutto è più buono. Pure più etico. Ora, già la parola pesticida ti induce a cadere in una fallacia argomentativa. Si chiamano agrofarmaci, prodotti fitosanitari. Pesticida è una cattiva traduzione dall’inglese. Pest è la peste, ossia, l’insetto o il patogeno che attacca, il pesticida è la soluzione. O no? Senza pesticida gli insetti banchettano. Ma per quale motivo esistono certi insetti o certi patogeni? Per attaccare le piante. Esistono per caso insetti che sanno leggere? Che vedono il campo biologico certificato da innumerevoli enti di certificazione e si passano la voce: no, dai, non attacchiamo questo campo: è biologico, sono etici, dai andiamo su quegli altri. Parole, parole, fallacie argomentative.

Ma i nostri pesticidi sono biologici. Naturali, non chimici. Prendi il rame per esempio, energia vitale. Così dicono. Energia vitale, ossia parole, parole. Cioè il contadino trova nel suo campo un blocco di rame (un blocco argilloso di energia vitale) e lo usa contro i patogeni? Ma come ragioniamo? Ma chi lo fa questo rame? Leggi una semplice garzantina (chimica) e che ti trovi: la produzione del rame prevede varie fasi di lavorazione e un notevole dispendio di energia. Biologico o no, naturale o meno, sempre un’industria chimica fa il rame. Capita che a vendere l’agrofarmaco naturale ammesso dal disciplinare del biologico, siano le stesse multinazionali che ti vendono il pesticida cattivo di sintesi. E poi il rame lascia un sacco di residui nel terreno. Oppure, tanto per dirne una, tra gli agrofarmaci ammessi all’agricoltura biologica c’è il rotenone. Sono o non sono un ispettore agrario? lavoro sì o no al MIPAF da 22 anni e giro, da 22 anni per le campagne del nostro bellissimo e desolato paese, per stimare i danni prodotti dalle calamità naturali? Ebbene, mi è capitato molte volte di sorprendere contadini biologici che usavano il rotenone. Tutto legale, però della pericolosità del rotenone si può sapere qualcosa con una semplice operazione: digitare, appunto, la parola rotenone su un qualsiasi motore di ricerca su lavori scientifici – una volta mentre esaminavo una frana, vidi un agricoltore che irrorava un frutteto biologico (un pescheto, cultivar Big top). Spruzzava enormi nuvole di rotenone. Me ne fuggii spaventato, mi impauriva di più il fitofarmaco naturale e biologico che la frana. Insomma, a parte i residui del rotenone, non vogliamo la chimica e gli insetti si mangiano i prodotti, come dire, li feriscono, e su queste ferite arrivano i funghi, i funghi rilasciano delle micotossine e queste ti intossicano. Così è successo a me, ed è successo perché per dare retta alla parola biologico, naturale e sano sono andato in un ristorante biologico, molto carino e vintage e molto caro e l’ho pagata caramente.

Queste cose, cosi come le sto dicendo, io le penso, ma non ricordo di averle dette, cioè me l’hanno riferite, preda com’ero dal delirio, quello tipico, da febbre alta e intossicazione alimentare. È tutta colpa della magia, dicevo nel deliquio. Le parole magiche ci intossicano. Comunque, per essere precisi, mi sono intossicato solo io. Gli altri stavano bene, quindi, mi dicevano: scusa non è scientifico il tuo ragionamento, noi stiamo benissimo, qua se tu accusi il ristorante biologico devi portare le prove, o fare delle comparazioni con i ristoranti convenzionali, un metodo doppio cieco. Ma che vuoi comparare? sfatto, intossicato, stanco, con la febbre, al buio, sotto le coperte, pensavo solo a quanto sono coglione, io e le parole magiche che ci consolano e ci avvolgono. Mi sono alzato dal letto con una depressione addosso. Quel sentimento di pesantezza, la pesantezza è una forza di gravità, la gravità ti abbatte, giù nel pozzo, giù nelle buche, a contatto con le zone oscure.

E così per darmi una mossa, sfoglio il domenicale, un po’ piove e un po’ no, libeccio inquieto, e mi trovo una recensione critica di Gilberto Corbellini al libro di Bonomi e Borgna, Elogio della depressione (che cosa perturbante, penso, altro segno della depressione, elementi che tornano a inquietarci, segni strani che si manifestano). Dice giustamente Corbellini (grande pezzo): Diversi studi ci dicono che il 50% dei suicidi ha alla base una depressione clinica (…) allora i casi sono due o gli autori (Borgna è un cantore delle meraviglie esistenziali insiste nella sofferenza psichica) possono dimostrare, con dati empirici, che la depressione non porta al suicidio, che davvero si tratta di una malattia che non colpisce le persone ma “comunità”, che non distrugge i legami affettivi e le famiglie, che aver avuto una depressione clinica rendi più altruisti, sensibili ecc, oppure stanno facendo letteratura, cioè chiacchiere sulla pelle di milioni di persone colpite da dolori psichici devastanti e senza rimedi immediati”. Grande pezzo e serio anche mi sono detto. Parole inutili che speculano sulle nostre zone oscure. Stai bene e ti fidi del biologico, ti intossichi e ti deprimi. Stai male è uno ti dice: perfetto continua così, non senti che sensibilità sta venendo fuori? Ormai depresso, di nuovo al letto, a pensare alle parole vuote. Alle parole ameba. Quelle che a pronunciarle si diventa importanti, giusti, etici, ma che non vogliono dire niente. La magia insomma.

Poi non dovrei dirlo io. Della magia, dico. Vengo da una generazione di maghi. Vecchia e onorata civiltà contadina. Gente che con le visioni, e i segni, e le percezioni, aveva familiarità. A causa dei frequenti cali di zucchero, troppa fatica o troppo dolore – entrambe le dimensioni erano incontenibili. Bisognava pur trovare un modo per sostenerle e la magia (le visioni, i segni e le percezioni) lo era, un modo. Mio nonno prese una strega intenta a fare treccine ai cavalli. L’afferrò per i capelli e lei disse: se mi lasci ti proteggo per sette generazioni. Io sono la terza. Mia zia toglieva malocchio e altre maledizioni, mia cugina Giovanna è una strega, è nata il 24 di dicembre (data in cui secondo la tradizione meridionale nascono le streghe, non puoi nascere nello stesso giorno di Gesù). Lei però fa magia bianca. Da loro ho imparato tutto, fondi di caffè, malocchio e soprattutto a leggere carte e tarocchi. Da quanto ero bambino. Ho avuto un paio di esperienze extracorporee e per tre volte io e mia cugina, rompendo la catena, durante una seduta spiritica, siamo stati sballottati (un termine tecnico, siamo stati preda di convulsioni). Vabbè, adesso lo posso dire, con tutta la ragione che ho: tutto questo è spiegabile. Soffrivo. Cioè non parlavo.

Fino a sei anni ho parlato male, poche parole, poi una lunga balbuzie. La causa? Credo, all’epoca, la depressione di mia mamma, ha perso una bambina (mia sorella), dopo un mese dalla nascita – l’altra mia sorella, Lisa, invece, sta bene, è ha fatto, guarda caso, la psicologa. Comunque, non parlando devo aver sviluppato una particolare percezione. Magica. Cioè, sapevo riconoscere i segni minimi sui volti delle persone: sei arrabbiata? Felice, incinta? Depressa? Uno sguardo e afferravo il suo umore. Battevo anche mia cugina che è appunto una strega e bravissima in queste cose, ancora oggi, non ci provate: fa paura. Avevo, tra l’altro, una visione del mondo antropomorfa. Le case non erano case, ma volti di persone. I cornicioni erano sopracciglia, i balconi nasi o labbra. Imitavo con l’espressione del viso perfettamente il design delle macchine, una cinquecento, con quegli occhioni, una Giulietta, tutta arrabbiata. Ero comico, facevo ridere, senza parlare. Quando ho scritto anni dopo La città distratta mi dicevano: in questo libro parlano anche le case. Sì, per me era facile:compensavo.

L’arte è una compensazione. Un modo per affrontare la sofferenza, per uscire magicamente dalla buca senza nemmeno arrampicarsi, per parlare senza parole. Gli artisti proteggono. Tempo fa ero a pranzo con Mauro Gioia, un musicista con cui ho scritto uno spettacolo. E con noi c’era il produttore dello spettacolo. Stavo raccontando un fatto (una cosa sullo spred mi sembra), avevo il boccone in bocca e biascicavo, e il produttore ha detto con quella leggera cattiveria di chi ha il potere: non ti si capisce quando parli. Che è una cosa che qualche volta mi dicono. E ci credo, fino a sei anni non parlavo. Ora prendo bene queste dichiarazioni, semplicemente mi concentro e parlo scandendo bene le parole. Però, per quanto la prenda bene, qualcosa nel fondo nell’anima o del cervello, qualcosa nelle gambe, trema, dal dolore e dalla rabbia. State ammazzando un uomo morto, sottolineando un’ovvietà. Penso questo, nel profondo del cuore, ma non lo dico, hanno ragione loro e torto io. E invece, Mauro Gioia che è un’artista, e stava pure parlando al cellulare, ha chiuso la conversazione e ha detto: io ho dimostrato che Antonio sul palco si fa capire eccome. Momenti così (metaforicamente) sono rari, ma sono alla base della nostra comprensione del dolore e sviluppano un vasto senso di empatia. La civiltà o la decenza si costruisce su questa attenzione, e su questa percezione. Dunque, ringrazierò sempre Mauro per questa dichiarazione e contemporaneamente maledirò in segreto tutti gli altri (e a torto anche).

Per questo amo gli artisti e l’arte che producono. Per la capacità di leggere le sofferenze nell’altro (perché le leggono in se stessi) e trasformarle, insomma fornire un ordine, un codice. Essere musa di un’artista (capita anche ai maschi) è un’esperienza strana: sei studiato, analizzato, penetrato o sfiorato, modellato, ricostruito ma sempre nobilitato in alcuni aspetti, spesso questi sono proprio mancanze: le tue balbuzie, gli affanni, i dolori. Essere artisti significa afferrare gli altri con intuito e leggerezza e non c’è dubbio che tutto questo è associato alla magia. Una magia primordiale, si perde nel neolitico, nelle grotte dove i nostri progenitori cercavano di fermare gli animali disegnandoli. Chissà com’era il clima in quelle grotte e com’era quelle pitture rupestri illuminate dalla luce del fuoco. Paura e azione, rappresentazione magica e caccia alla preda.

Però è anche vero il contrario: essere artisti significa corteggiare smodatamente la propria fragilità. Aggettivo ambiguo, può sembrare dolce, ma mica lo è. Fragile, cioè narcisista, egoista, depresso, vittima di se stesso e delle sue stesse parole. Vitalità e depressione si sfidano sempre. Se da una parte infondi energia, dall’altra la sottrai. L’artista è uno che può rovinarti a forza di parole insensate, di promesse vere come un fondotinta, perché se è vero che sa leggere i tuoi dolori e anche vero il contrario: può trascinarti nel dolore. Come quando leggi i tarocchi. A me che mi ci vuole? Io soffrivo, non parlavano e l’adattamento evolutivo mi aveva donato questa particolare percezione, leggevo nei volti degli altri il mio stesso volto, neuroni a specchio – una capacità che ancora oggi in alcuni momenti di abbandono conservo. Arrivavano le persone e non aspettavo mica che si esprimessero, tutto era già scritto sul loro volto. Erano in mio potere e io stesso era preda del mio dolore. Che commistione pericolosa, questo incontro di due mancanze, due egoismi. Le parole possono salvare o farti precipitare.

E quando si precipita non si precipita da soli. La rabbia che la caduta genera è difficile da spegnere. E determinano furie improvvise, e non è solo una questione di isteria e piatti rotti, no, è un istinto di morte, vuoi uccidere o ucciderti. Corteggiare la depressione, tornare in luoghi oscuri, alla balbuzie, anche ora che parli e reciti è un’esperienza devastante ed è un bene che duri poco, perché non c’è nessuna felicità o civiltà o decenza nell’essere infelici. Perché, per esempio, ho fatto a botte con un professore calabrese perché era un convinto sostenitore della decrescita felice, perché ho giurato di uccidere un neoborbonico convinto che Garibaldi fosse un servo dell’Inghilterra, perché gridavo con rabbia e dicevo a mia figlia che da piccola veniva presa in giro perché balbettava: Marianna non piangere, non devi piangere, mai! e perché ho immaginato la mia morte, il mio suicidio, con chi ce l’ho davvero in quei momenti? Davvero sono contro il professore sostenitore della decrescita? Non penso proprio, ce l’ho con quella parte di me che balbettava, quell’individuo alla mercé degli altri, sofferente e per questo stupido, fragile, senza difese. Spegnere questa sofferenza, trovare una maniera per raccontarla è un passo obbligato. Esige una responsabilità.

Voglio dire, è una questione di metodo, devi uscirne dalla buca. Lavorare sulle mancanze. Un po’ come le esperienze extra corporee pre adolescenziali (io due, ma erano semplici allucinazioni mattutine), il tuo corpo astrale si stacca dal corpo e ti vedi sul letto, disteso, pesante, caduto nel sonno, forse morto. Ma sei leggero, ora puoi vederti davvero come sei, impietosirti, accogliere quello sguardo sofferente e quella voce fragile, ora sai come sei e puoi trovare il modo di parlare senza balbettare, perché la tua anima ora passa attraverso i muri, viaggia per la città, entra nelle fogne o come un uccello staziona sulle antenne, vedi bassezze e altezze e non ti sporchi. Nessuna ferita. È un momento di percezione acuta ed empatica, poi devi tornare nel tuo corpo, e accettare il tuo incubo. Qualsiasi fuga in avanti che non tiene conto delle bassezze causa un danno in seguito. Deve essere stato così, l’evoluzione ci ha dotato dei neuroni a specchio, e ci ha offerto una possibilità, uscire dalla nostre bassezze perché vediamo quelle degli altri, o all’opposto imitare gli altri perché ci piacciono i loro gesti, per questo produciamo arte per questo desideriamo essere creativi. Per migliorare noi stessi e il mondo. E anche per questo esageriamo e cerchiamo scorciatoie, a forza di parole amebe. Quelle che intossicano la percezione.

Che fare? Trasformare la magia in ragione. La percezione in metodo. La prima cosa. Costruire strumenti affidabili, ragionare analiticamente, pensare che la mente mentre pensa pensa a se stessa. Dunque cosa influenza la mente? Forse le influenze non vengono in fondo da così lontano, le balbuzie sono vicine a noi. Ci vuole rigore e metodo, attenzione alle parole e responsabilità, eliminare le parole amebe e il dolore di scarto, può condurre a uno stato di grazia, una leggerezza senza pericolo di intossicazioni, alimentari e ideologiche. Insomma, bisogna scegliersi una parte (un metodo) dietro la linea gotica. Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi, canta Lindo Ferretti. Però è anche vero il contrario, aver fatto troppa attenzione spesso è causa di infelicità e di ulteriore depressione.

Non se ne esce facilmente. È una continua contraddizione. Vitalità artista e creazione contro buche e bassezze. Siamo figli di due culture, quella della ragione (del sistema due) e quella dell’istinto (il sistema uno), abbiamo regole provate e certe nel funzionamento e cadute personali, buche dentro le quali si cade e si continua a cadere, e contro questa speciale gravità le regole provate e sperimentate non valgono.

Questo ho pensato. Ma ora, che sono guarito, senza magia, solo con medicine occidentali e metodo cartesiano. Ieri, invece, volevo solo ammazzare il ristoratore biologico. Che ci volete fare, la vita è una guerra.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.