L’unico contromano

Ho letto molti pareri sulle regole per non candidare alle elezioni coloro che hanno subito alcuni tipi di condanna, e oggi anche quello che ha scritto Carlo Federico Grosso, che di giustizia ne sa e propone persino l’inibizione prima della condanna definitiva. Di fronte a tanta unanimità, faccio delle riflessioni e assumo che delle buone ragioni ci siano. Capisco soprattutto il pensiero realista, quello che giudica sulla base del contesto e dei risultati: e dice “guardate come stiamo messi e chi c’è in parlamento, e dite se non sarebbe meglio intervenire a metterci una pezza senza fare tanto i sofisticati”.
Però rimango diffidente della scelta in termini di principi: voi direte che i principi vanno commisurati al contesto, io vi risponderò che rinunciare ai principi giusti in nome dei risultati è una cosa sventata, il fine che giustifica i mezzi, eccetera.
Quindi, mettendo agli atti che la mia è una posizione di minoranza, e aggravandola di maggiori dubbi di quanti ne avessi un tempo, metto insieme qui una serie di argomenti a contestazione della scelta che stiamo facendo oggi, scritti quando Grillo cominciò a insisterci (oggi ha vinto).

In uno stato di diritto, la pena si esaurisce e serve – con espressione sgradevole ma ci capiamo – a “riabilitare” il condannato e a fare da deterrente. Ovviamente la proposta Grillo non ha senso in nessuno dei due casi.
In più, la pena è comminata dal giudice. Grillo di fatto propone esattamente quell’ingerenza della politica sulla giustizia che solitamente gli fa scandalo: è il giudice che decide pene e pene accessorie. Se ritiene ce ne sia ragione, infligge l’interdizione dai pubblici uffici per un determinato tempo.
Ma imporre per legge che chi compie dei reati non ritornerà mai un cittadino come gli altri con i diritti degli altri (e parliamo tra l’altro non di efferati fatti di sangue) è il contrario dello stato di diritto.
Per non parlare, se qualcuno accampa ragioni di tutela della comunità, della pretesa antidemocratica che lo Stato “tuteli” i cittadini impedendo loro di votare questo o quel candidato limitando la loro possibilità di scelta e implicando a priori che i cittadini non siano in grado di esercitare i loro diritti. Siamo nell’ambito della dittatura.
Il parlamento italiano ha bisogno di una regolata, a cominciare dalla drastica riduzione dei suoi quasi mille membri: ma una regolata intelligente, non de panza

Aggiungo un altro punto di vista. La democrazia prevede che il criterio con cui si viene eletti sia il giudizio libero dei cittadini e il loro voto: salvo questo, sono eleggibili tutti. Questo dovrebbe garantire un risultato soddisfacente in termini democratici. Punto. Se il risultato non piace, non puoi cambiare le regole per questo.
Mi spiego meglio: se gli elettori italiani avessero ritenuto di non votare i condannati che Grillo elenca sistematicamente per nome – rendendo la sua proposta di legge ad personam – Grillo non avrebbe mai trovato necessaria una legge a correzione. Lo fa, perché non gli piace il risultato. Che può non piacere a molti, ma non si cambiano le regole perché non ci piace il risultato. (Se il problema sono le liste bloccate, si chiede una buona legge elettorale, non si mette una toppa peggio del buco sulla brutta legge elettorale).
Già che ci sono, chiarisco un’altra cosa, a facilitare il dibattito con chi mi ha risposto (parecchi, ma non Grillo): è vero che esiste un altro esempio di limite legislativo all’eleggibilità. È la regola che richiede rispettivamente di aver compiuto 25 o 40 anni per entrare in parlamento. Ma si tratta di un unico, non di un esempio tra molti. E si tratta di un’inibizione temporanea, non a vita. (E si tratta di una norma priva di senso. Perché non lo dice mai nessuno? È una norma assolutamente ingiusta, incongrua con l’istituto della maggiore età e i pari diritti, e priva di senso. Aboliamola).

Un avvocato milanese mi suggerisce un’ultima abbagliante controindicazione della proposta Grillo sui condannati (o inquisiti) impediti all’elezione. Ovvero che la norma diverrebbe un’arma micidiale nelle mani dei giudici e degli inquirenti: sia perché le loro iniziative diverrebbero politicamente rilevantissime, sia perché di conseguenza potrebbero anche essere inibiti a prenderle. È la famosa e temuta commistione tra politica e giustizia


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).