Lo zio d’America

L’ironia l’aveva trasmessa la madre. Il ritmo il padre. Alla ricchezza avrebbe dovuto pensarci lo zio. Ma non tutto andò per il verso giusto. E fu un bene.

Lei si chiamava Phoebe Wolkind, era nata nel 1914, tre anni dopo Harold “Hal” Wolkind, suo fratello, e Henry Ephron, per lei in quel momento nessuno. Erano tutti e tre del Bronx. Ma i loro destini si incrociarono solo una sera del 1933 quando Henry e Phoebe si trovarono uno di fronte all’altra durante un campo estivo. «Voglio diventare al più presto un buon drammaturgo e non ho tempo per i corteggiamenti», disse lui. «Fammi leggere una delle tue commedie», rispose lei. Erano giovani ma poche settimane dopo si sposarono. Fu così che Phoebe, Henry e Hal divennero moglie, marito e cognato.

Henry iniziò la sua carriera a Broadway. Il suo primo lavoro fu quello di direttore di scena in un teatro che rappresentava George Simon Kaufman e Moss Hart. Fin dai suoi esordi i suggerimenti più preziosi provenivano dalla moglie e presto la signora Ephron accantonò il ruolo di casalinga per un posto di autrice. Fu così che Henry e Phoebe divennero una coppia al servizio della scrittura. Se lui era bravo a dettare i tempi, lei era abile a rubare dal vero. E funzionò. Il loro primo script per il cinema, Three’s a Family (1944), si basò sull’esperienza che aveva portato, nel 1941, alla nascita della loro primogenita. L’avevano chiamata Nora, come la protagonista di Casa di bambola di Henrik Ibsen.

Il fratello di Phoebe, Hal, alle parole preferiva i numeri e aveva quindi intrapreso la strada opposta. Dopo essersi laureato alla Columbia, aveva conseguito un master in economia e statistica che era riuscito a mettere pienamente a frutto: a partire dal 1937 si era stabilito a Washington dove era diventato un funzionario del governo, lavorando prima per il Dipartimento del Commercio poi per quello del Lavoro. Fu mentre dirigeva una divisione del “Bureau of Labor Statistics”, la principale agenzia d’indagine economica del governo statunitense, che incontrò Eleanor la donna che poco dopo sarebbe divenuta sua moglie.

Gli Ephron, invece, nel 1946 si erano trasferiti dall’altra parte degli Stati Uniti per dedicarsi pienamente alla sceneggiatura. Nel corso della loro vita sarebbero riusciti a lavorare per quattro decenni tra Broadway e Hollywood (furono sotto contratto con la 20th Century Fox dal 1950 al 1956), a scrivere almeno quattro commedie di successo (There’s No Business Like Show Business con Marilyn Monroe, Carousel con Shirley Jones, Desk Set con la coppia Spencer Tracy – Katharine Hepburn e Captain Newman, M.D. che fruttò loro una nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura) e a mettere al mondo quattro figlie: dopo Nora, Delia (1944), Hallie (1948) e Amy (1952). Tutte e quattro sarebbero diventate scrittrici.

D’altronde non poteva essere che così. Nella loro casa di Los Angeles tutti si aspettavano che girassero solo belle frasi o battute argute. Anche a tavola gli Ephron erano impegnati a raccogliere potenziali dialoghi da adattare per lo schermo, persino le lettere che Nora scrisse dal college vennero usate come base per una commedia: Take Her, She’s Mine.

In quegli anni Nora, sperava di diventare una nuova Dorothy Parker e sognava di tornare a vivere a New York. Terminata la Beverly Hills High School nel 1958, entrò al Wellesley College, nel Massachusetts, dal quale uscì nel 1962 con una laurea in scienze politiche. Forte di questa, riuscì a ottenere uno stage presso la Casa Bianca del presidente John F. Kennedy («Probabilmente – commentò serafica in seguito – l’unica donna che ci abbia lavorato alla quale Kennedy non abbia fatto caso»).

Durante quei giorni Nora colse l’occasione per vedersi con lo zio Hal e la zia Eleanor. I due non avevano avuto figli e vivevano ancora a Washington, ma a partire dagli anni Cinquanta, avevano abbandonato il loro lavoro di economisti per iniziare a occuparsi di proprietà immobiliari, attività che li aveva resi incredibilmente ricchi. Con la Columbia Builders Inc. e la Phoenix Properties Inc. (della quale era presidente dal 1959) Hal stava realizzando interi isolati di ville nella Virginia del Nord, soprattutto a McLean e Falls Church, nella periferia del Maryland e anche a Washington.

Terminato la stage, Nora si trattenne sulla East Coast per andare a New York. Si recò in un’agenzia di collocamento sulla Quarantaduesima Ovest spiegando all’impiegata che aveva di fronte di volere fare la giornalista. La donna le aveva risposto: «Andrebbe bene il Newsweek?». E le fissò un appuntamento al 444 di Madison Avenue. Al colloquio le chiesero: «Perché ha scelto noi?». «Beh, perché voglio fare la giornalista», rispose Nora. L’uomo si premurò di rassicurarla: «Le donne che lavorano qui non sono giornaliste». Così lei, laureata e redattrice del giornale universitario, venne assunta come ragazza della posta per cinquantacinque dollari a settimana. Dopo tre mesi fu promossa a ritagliare articoli dai giornali di tutto il mondo destinati alla rassegna stampa, tre mesi più tardi fu eletta ricercatrice, ovvero: verificatrice di fatti (se, ad esempio, un giornalista scriveva che «il lampadario della Camera dei Rappresentanti ha “tk” lampadine», lei doveva scoprire il numero esatto di quelle lampadine; “tk” stava per “to come”),

Durante quei giorni Nora diventò amica dell’editore Victor Navasky che da qualche anno pubblicava la rivista satirica Monocle. Le chiese un pezzo per parodiare una rubrica mondana firmata da Leonard Lyons sul New York Post. Lei ci riuscì così bene che l’editrice del Post Dorothy Schiff le offrì una prova di due settimane. Diventarono cinque anni. Il primo regista che intervistò Nora nella sua prima settimana di lavoro fu l’italiano Nanni Loy. Imparò a scrivere, conobbe molte persone, visse in prima linea molti eventi storici. Finché le offrirono una rubrica femminile per Esquire. E Nora si fece un nome.

Mentre la sua carriera era in ascesa quella dei suoi genitori si avviava verso un inesorabile declino. I tempi erano cambiati, nei rivoluzionari anni Sessanta la sofisticata leggerezza delle loro commedie non funzionava più e tutto il loro talento divenne inutile come una vecchia carcassa. Tornati a New York, dove tutto era iniziato, sprofondarono nell’alcol. Phoebe anche se abbandonò la speranza di scrivere non perse l’ironia: «Io non vado in cucina molto spesso – disse una volta –  tranne che per i cubetti di ghiaccio per un drink». Finché si ammalò di cirrosi epatica. Aveva sempre utilizzato la vita per l’arte. Sapeva che le tragedie della propria esistenza possiedono il potenziale per diventare storie comiche per il prossimo. E quando Nora la vide per l’ultima volta al Doctors Hospital di New York, Phoebe le disse: «Prendi appunti, Nora, prendi appunti. Ogni cosa è fonte di ispirazione» («Take notes, everything is copy»).

Phoebe morì il 13 ottobre 1971, a 57 anni. Da quel momento la vita di Henry si fermò, quella di Hal si affidò invece a un dentista amico di famiglia di nome Irwin con il quale entrò in società per avviare un ambizioso progetto edilizio a Portorico. Tre anni dopo morì anche Eleanor. I due cognati, entrambi vedovi, si iniziarono a sentire frequentemente.

Fu poco prima di quel periodo che Nora, una sera del 1973, andò a una festa a Manhattan. Lì incontrò Carl Bernstein, il cronista del Washington Post che, insieme a Bob Woodward, si era appena cucito addosso il Premio Pulitzer per l’inchiesta che aveva svelato i retroscena dello scandalo Watergate. Lei era ancora una columnist di Esquire, lui l’uomo che aveva spinto il Presidente Nixon a dimettersi. Dopo due anni e mezzo di attenzioni i due si sposarono con una cerimonia civile. Era il 1976. Lo stesso anno in cui Dustin Hoffman interpretò Bernstein nel film “Tutti gli uomini del presidente”.

La sceneggiatura di quella pellicola era stata scritta da William Goldman e, tramite Bernstein, durante la fase di lavorazione era arrivata anche nelle mani di Nora. Bernstein e Woodward non erano contenti del risultato, giudicato troppo romanzato, e decisero che la sceneggiatura andava riscritta. Così Bernstein, che sapeva molto di se stesso ma poco di cinema, propose alla futura moglie di occuparsene insieme a lui. Nora era cresciuta leggendo sceneggiature, ma questo era il suo primo tentativo di scriverne una.

Quando fu pronta, Robert Redford, che aveva acquisito i diritti del libro dal quale era stata tratta, Goldman e lo stesso Woodward non la reputarono adatta, così la sceneggiatura di Nora non venne utilizzata. Per lei, però, si rivelò ugualmente un trampolino. Da un lato rappresentò un ottimo modo per imparare (perché anche il solo ricalcare le acute indicazioni di Goldman le aveva insegnato molto), dall’altro quel suo script venne letto da qualcuno che le commissionò la sua prima sceneggiatura (una puntata della serie televisiva Adam’s Rib trasmessa dalla ABC: “For Richer, for Poorer”). Fu così che iniziò la sua carriera di sceneggiatrice.

Tre anni dopo, d’estate, Nora era incinta del loro secondo figlio, quando scoprì che il marito aveva una relazione con Margaret Jay, la figlia dell’ex primo ministro James Callaghan e la moglie dell’ex-ambasciatore britannico Peter Jay. Bernstein entrò in un vortice di promesse e bugie (esiste una foto che dice più di molte parole) finché, poco prima di Natale, Nora prese i suoi due bambini, Jacob, di diciassette mesi e Max, di appena sette settimane (ma rilasciato dal Mount Sinai Hospital di New York appena quindici giorni prima) e se ne andò di casa. Solo dopo cinque anni e mezzo di estenuanti trattative tra gli avvocati delle due parti –  Judith Richards Hope per Nora e Robert Liotta per Carl – riuscirono a trovare l’accordo definitivo per il divorzio che venne sancito il 27 giugno 1985.

Pochi mesi prima Nora si era vista a pranzo con il regista Rob Reiner. Lui, come lei era appena uscito da un matrimonio fallito, come lei era ebreo, come lei era figlio d’arte e come lei aveva un padre, l’attore e regista Carl, nato nel Bronx. Entrambi, inoltre, avevano da poco visto il loro esordio al cinema, lui come regista, lei come sceneggiatrice (tra l’altro nominata all’Oscar), e stavano concentrandosi sul loro secondo lavoro. A ottobre dell’anno precedente avevano pranzato insieme lui, lei e il produttore Andrew Scheinman per discutere di un progetto. A Nora non interessò ma passarono allegramente il resto del pranzo a discutere della loro condizione di single (il primo, appunto, divorziato, il secondo scapolo) in una grande città come Los Angeles. Era stato molto divertente e decisero che si sarebbero rivisti la volta successiva che sarebbero capitati a New York.

Così poco dopo si ritrovarono ed esaminarono più di un progetto. Non ne presero in considerazione nemmeno uno, ma dalle loro stesse chiacchiere di vita vissuta uscì fuori il lampo che cercavano. Doveva essere una storia leggera e molto conversata, senza grandi drammi, con passeggiate, appartamenti, telefoni, ristoranti e film. Nora si mise al lavoro, rubando dal vero, come sempre aveva fatto la madre. I tratti ironicamente deprimenti del suo personaggio maschile ricalcavano quelli di Reiner, quelli ottimistici e maniacali della protagonista femminile lei stessa.

Seguirono molti incontri di lavoro e almeno cinque lunghe stesure di sceneggiatura. Così, gradualmente, la storia cominciò a cambiare, da qualcosa che era principalmente di Nora a qualcos’altro che non riconosceva più. E un po’ lei se ne distaccò. Quel lavoro però le serviva e lei non poteva lasciarlo. Il padre continuava a dirle che con tutti i soldi dello zio Hal presto lei e le sue sorelle avrebbero campato di rendita e lei non avrebbe avuto più bisogno di scrivere. Lei sapeva che lo zio era in salute e che il padre non era credibile. Pertanto proseguì nel suo lavoro. Reiner nel frattempo diresse due film. Si arrivò così al 1987.

Quell’anno Nora si sposò con Nicholas Pileggi (lo sceneggiatore che avrebbe scritto per Martin Scorsese Quei bravi ragazzi e Casinò). Durante l’estate, mentre Nora stava ancora combattendo con la sceneggiatura che doveva «scrivere per pagare le bollette», squillò il telefono. Era un curatore testamentario di Washington che chiamava per informarla che suo zio Hal stava morendo di polmonite e che lei, insieme alle sue sorelle, era la parente più prossima. Riappese sbigottita. Era vero, sarebbe diventata una ereditiera. Il telefono squillò di nuovo. Hal era morto. Era il 30 luglio.

A quel punto Nora iniziò a fantasticare. Fece un calcolo ipotetico delle proprietà dello zio. Il valore del suo patrimonio si aggirava intorno ai quattro milioni di dollari. Divisi per le quattro sorelle significava un milione a testa. Lei e il marito avevano appena comprato casa a Long Island e non avevano più un soldo. Iniziò a girare per le stanze immaginando cosa avrebbe potuto farci con quella fortuna. Andò di sopra, guardò la sceneggiatura che stava scrivendo. Era ancora sfocata e non aveva nemmeno un titolo. L’aveva chiamata di volta in volta Blue Moon, Boy Meets Girl, How They Met, It Had To Be You, Just Friends, Playing Melancholy Baby, Scenes from a Friendship e Words of Love, ma per lo più Untitled Rob Reiner Project. E quel “progetto” si era fatto davvero complicato. Non era ancora chiaro nemmeno come doveva finire. Nora ci stava lavorando solo per i soldi. Ora finalmente non avrebbe dovuto farlo più. E quella sceneggiatura non sarebbe mai diventata un film. Spense il computer, si sdraiò sul letto e continuò a sognare.

Il giorno dopo arrivò la telefonata dell’avvocato di Hal. Aveva lasciato la metà dei suoi beni alla sua governante e l’altra metà alle quattro sorelle. Le porzioni cambiarono: a Nora sarebbe toccato un ottavo del patrimonio. “Di quanto si tratta?”, chiese lei. “Credo meno di mezzo milione”. I calcoli che aveva fatto erano dunque esatti, il patrimonio dello zio ammontava a quattro milioni. Si scoprì poco dopo, però, che affidarlo al dentista Irwin non si era rivelata una scelta felice. L’avventura portoricana aveva bruciato quasi tutti i soldi di Hal e alle sorelle sarebbero arrivati quarantamila dollari a testa. Appena lo seppe Nora tornò di sopra e accese il computer per rimettersi al lavoro.

E fu, per l’appunto, un bene. Perché se non lo avesse fatto, quel progetto senza titolo, portato avanti da quella donna che aveva ereditato il ritmo dal padre, l’ironia dalla madre e nessuna proprietà dallo zio, non sarebbe mai diventato Harry ti presento Sally.

Il film di Rainer uscì trent’anni fa: il 12 luglio 1989.

 

 

 

Piero Trellini

Scrive per la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Domani. Ha lavorato per Il Messaggero, il Manifesto, Sky e altri. Collabora con Nuovi Argomenti e Art e Dossier. Scrive serie televisive. Ha pubblicato “La partita” (Mondadori), “Danteide” (Bompiani), “L’Affaire” (Bompiani) e “La partita. Le immagini di Italia-Brasile” (Mondadori).
Puoi scrivergli qui.