L’incontro con l’androide alla Fondazione Prada

Un uomo osserva una bella donna. Questa donna balla al centro di una pista, in un piccolo club di via Padova, a Milano. A un certo punto la donna ricambia l’uomo con uno sguardo. È l’inizio di qualcosa? Questa scena, che ho molto sintetizzato, è contenuta in un racconto (inedito) che ho avuto modo di leggere. L’autore definisce “eye contact” il momento in cui l’uomo e la donna incrociano gli occhi, toccandosi. Si tratta di un’espressione coniata nel 1960 – lo scopro su Wikipedia – nell’ambito di una disciplina chiamata “oculesics”, che studia lo sguardo come strumento di comunicazione non verbale.

Quando incontriamo lo sguardo di qualcuno, che vi sia seduzione o meno, dentro di noi accade qualcosa. Ma è più di quanto non s’intuisca nell’espressione “eye contact”. In qualche modo veniamo modificati dall’immagine dell’altro, da questa specie di colore che si propaga nel nostro interno, producendo una catena di eventi psichici, di altre immagini, associazioni. Tutto succede nell’arco di un tempo che non è possibile misurare. È il tempo della coscienza.

Ora, scrivo queste righe dentro la sala Podium della bellissima Fondazione Prada, a Milano. Di fronte a me siede un androide. Sono qui per la seconda volta in una settimana. L’androide è un’opera dell’artista polacca Goshka Macuga ed è stato fabbricato in Giappone da A Lab. Riproduce le fattezze del fidanzato di Goshka. L’opera s’intitola “To the son of man who ate the scroll”. Circa tre metri mi separano da questa creatura. Siede con le gambe immobili, divaricate, protette da una sorta di guaina contenitiva. Indossa uno spolverino di plastica trasparente, come quello di una replicante in Blade Runner. Credo sia un omaggio. I piedi sono custoditi da una calzatura fatta di tela e da un’altra di schiuma espansa rosa. Quella barba mi fa pensare sia a Socrate che a Socrates, il calciatore intellettuale brasiliano. Poco dopo il mio arrivo l’opera comincia a parlare. Prende vita. Per quanto fino a un momento prima sembrasse comunque tra noi, vigile, solo un po’ assorta. Con il movimento del busto, delle braccia e delle mani, accompagna una lunga orazione composta da frammenti di opere e discorsi di Hanna Arendt, Martin Luther King, Walter Benjamin, Jared Diamond, Mikhail Gorbacev, Mary Shelley, Nietzsche, Donna Haraway ed altri.

Goshka-Macuga-1

Per 40 minuti l’androide – ma non esiste, chiedo provocatoriamente ed esplorativamente, un nome più gentile, più corretto? Se dico androide ho come l’impressione di dire negro – solleva le braccia verso l’alto, le sposta verso il basso, in diagonale, le allarga o le avvicina fino a sfiorare i polsi; punta il dito indice verso il soffitto, stringe le mani quasi a pugno, le muove verso il basso e poi verso l’alto per sottolineare un concetto. Per affermare, negare, sospendere, sorprendere. Come un predicatore, ma con più morbidezza e lentezza. Penalizzato da un’imperfezione motoria che non riesco a non associare a una toccante inettitudine, a una specie d’ingenuità; allo stesso impaccio che mette tenerezza se visto in un bimbo che gattona o impugna male una forchetta.

Scrivo questi appunti su un taccuino, dopo essermi a mia volta seduto. Quando rialzo gli occhi scopro che lo sguardo dell’androide si è posato su di me. Cerca e sollecita la mia attenzione, la stringe, la cattura: quasi un istrione; mi lusinga della sua considerazione, ma giusto il tempo di spostare la direzione dello sguardo – gaze direction – verso il volto e gli occhi di un altro visitatore. Quando lo sguardo dell’androide intercetta il mio si realizza una connessione. Prende forma l’“eye contact” che avevo trovato descritto nel racconto. Mi torna in mente una parola di sedici lettere: Mamihlapinatapai. È una parola tratta dalla lingua di una popolazione della Terra del Fuoco. Significa “guardarsi reciprocamente negli occhi sperando che l’altra persona faccia qualcosa che entrambi desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due vuole fare per primo”. Non mi sono invaghito di un robot barbuto, ma sento che una parte di me è profondamente irretita, sedotta, ingannata, da questa forza irradiante, natura naturans, che sembra lottare dentro l’androide per stabilire un contatto e comunicare. È un fatto percettibile, commovente, unico, disorientante. E di che colore sono gli occhi dell’androide? Nocciola o forse una sorta di color miele scuro. Sono molto piccoli. Per mettere a fuoco il colore dovrei fissarli a lungo. Ma ho come il dubbio che potrei creare imbarazzo in qualcuno. Avverto davvero il fantasma dell’umano.

Mentre scrivo e nell’autodiagnosi provo a sondare l’oscurità di questa relazione, le mie orecchie sono ancora piene di molte cose ascoltate e lette, nei giorni scorsi, a proposito della maternità surrogata. Che male c’è nell’utilizzo dell’utero come una risorsa, capace di fruttare a una donna un contratto di lavoro della durata di ben nove mesi? Che differenza c’è tra la prestazione delle sue braccia o delle sue competenze intellettuali e lo sfruttamento del suo grembo, in fondo? Che differenza c’è tra l’alienazione del prodotto del suo lavoro in questa nuova circostanza e in quelle altre più famigliari circostanze? Nessuna. Anzi, meglio una gravidanza tranquilla che un posto sottopagato in cassa a un supermarket. E in ogni caso, ciascuna decida per sé. Culture laiche e libertarie, non senza proprie ragioni, supportano questa prospettiva in sintonia con un mercato che si attrezza. Ma in questa radicale rivendicazione del corpo come macchina e risorsa da cui estrarre valore, e nella spoliazione di ogni suo residuo metafisico, per un momento ho visto consumarsi il tramonto dell’umano nella specie, mentre in parallelo ne rivedevo la timida aurora, un mattino alla Fondazione Prada, nei modi incerti di un androide. Ecco perché alcuni androidi possono affascinarmi più di alcuni libertari.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).