L’impossibile operazione verità nel Pd

Non so se sarà Anna Finocchiaro o qualcun altro. Non so neanche se sarà un segretario vero o un reggente di attesa di congresso. Di un congresso a ottobre o di un congresso a giugno. So solo, sperando di essere smentito, che purtroppo la donna o l’uomo chiamati da sabato a dirigere il Pd non partirà in alcun caso col piede giusto per recuperare un minimo di rapporto di fiducia con l’opinione pubblica democratica.
Perché la prima indispensabile operazione da fare è fuori portata per quasi chiunque dell’attuale gruppo dirigente. L’impedimento maggiore sarà nell’inevitabile continuità con l’errore commesso collettivamente negli ultimi mesi.

Prendiamo l’intervista di Bersani all’Unità, domenica scorsa.
Dalle parole di un uomo sicuramente sincero e appassionato emerge una periodizzazione della crisi del Pd ancora miope e auto-assolutoria. In pratica, a sentire Bersani andava tutto bene fino al folle gesto suicida dei 101 che al quarto scrutinio per il Quirinale affossarono la candidatura di Prodi. Da lì in poi: il crollo, lo svelamento di un partito incapace di assolvere alla sua responsabilità verso il paese.

Bersani ha preso su di sé tutte le colpe per quella mattinata folle. Ma la sua ricostruzione capovolge la concatenazione dei fatti e, di nuovo, occulta la dinamica effettiva.
Senza che praticamente nessuno del gruppo dirigente romano lo smentisse, e anzi con l’incoraggiamento apparentemente unanime della direzione del partito, Bersani fin dal pomeriggio del 26 febbraio ha allontanato la verità della sconfitta elettorale. E su questo auto-inganno ha costruito una linea che per due mesi ha ingenerato nella base del Pd e nell’opinione pubblica un’aspettativa del tutto irragionevole e irrealistica. Quella del governo del cambiamento da poter fare comunque, nonostante la batosta subita e contro l’evidenza dei numeri parlamentari.
È andata avanti così per settimane. Durante le quali, dirigenti che ora si trovano a fare ministrii viceministri e sottosegretari del governo di larga coalizione sono sfilati in tv demonizzando l’ipotesi stessa del governo di larga coalizione.

Per quanto sembri assurdo e inaccettabile, bisognerebbe riconoscere che non sono stati i franchi tiratori a tradire gli elettori. Non per primi, almeno.
Quel giorno a Montecitorio loro, come Europa – il giornale che dirigo – scrisse a botta caldissima, hanno sconciato se stessi e la storia dell’Ulivo. Ma, ben prima, il tradimento è consistito nel non dire tutta la verità sul risultato e sulle possibilità del Pd, ed è stato consumato per l’incapacità di sfidare il senso comune progressista mettendolo di fronte alla dura realtà dei fatti e dei numeri: una timidezza storica, che si riassume nella frase proverbiale «la base non capirebbe».

Infatti adesso la base non capisce davvero. E, stufa di non capire, si ribella. Occupa la sedi. Inonda di email insultanti una sede nazionale dove a quanto pare non c’è nessuno che si senta in dovere di leggerle né tanto meno di spiegare.
Capita così, quando gli errori non vengono riconosciuti, si annegano nell’indistinto o vengono scaraventati su chi non ne dovrà mai rispondere, come i 101 reprobi anonimi. Per dirla tutta, i 101 che hanno agito nell’ombra si prestano ad alibi fantastico per sbagli commessi alla luce del sole. Tanto più che non devono pagarne le conseguenze: molti di loro sabato saranno comodamente al loro posto, forse non solo in platea.

Come sarebbero andate diversamente le cose se quel 25 febbraio Bersani avesse messo in chiaro la situazione, si fosse tirato indietro come protagonista della fase politica (insieme a una mezza dozzina almeno di segretari regionali andati incontro a sconfitte locali clamorose) e avesse consegnato a qualcun altro l’onere di gestire passaggi difficili nel tentativo di ridurre i danni.
Chi prenderà ora la reggenza del Pd saprà ricostruire questa storia? O tornerà a scaricare su Napolitano la responsabilità di aver costretto il partito a un’alleanza alla quale l’hanno in realtà spinto gli elettori? A parte Matteo Renzi (duramente maltrattato per questo) e pochissimi altri (Civati chiese le dimissioni di Bersani un’ora dopo le elezioni ma poi ci ripensò), tutti gli altri hanno condiviso le scelte che hanno condotto ai guai attuali. Alcuni si sono ricordati di non averle condivise solo a disastro consumato.

Tornare a essere convincenti presso gli italiani non sarà facile. Certo molto dipenderà dai risultati del governo Letta e dalla capacità di fare riforme in parlamento, al limite sfidando il centrodestra. Ma neanche questo basterà, se nessuno si incaricherà finalmente di un’operazione verità.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.