Le prove comuni in una classe della Sicilia orientale

In una classe della Sicilia orientale, quando è ottobre, succedono cose dettate anche un poco dal clima. In giro pare ci sia la nebbia, ma non è la nebbia, è un misto di scirocco e di persone, di solito semidelinquenti o paradelinquenti, che si mettono ad arrostire castagne. È una pratica che di per sé non avrebbe nulla di delinquenziale, ma poiché a svolgerla è normalmente un para o semidelinquente, diventa para o semidelinquenziale, anche in ragione del fatto che il clima non invita alle caldarroste, anzi le caldarroste fanno un po’ a pugni col clima di ottobre in Sicilia orientale, per cui questi delinquenti, semidelinquenti o paradelinquenti che si arrampicano sull’Etna e ne tornano carichi di castagne da arrostire ai bordi delle strade, specie quelle nei pressi delle scuole, aggiungendo i loro malsani suffumigi all’aria già di per sé densa e giallognola, creano dentro le classi della Sicilia orientale, durante il mese di ottobre, una luce sporca e cattiva, che disturba le prove d’ingresso.

In effetti, dentro queste aule scolastiche, dalle cui finestre, aperte per via del libeccio salato che continua a soffiare, e da cui si diffondono aromi di copertone bruciato da semi e paradelinquenti allo scopo di arrostire castagne in netto contrasto climatico con l’ambiente circostante, nel mese di ottobre, di solito, si svolgono le cosiddette prove comuni, o prove parallele, o prove d’ingresso di italiano. Un modo per stabilire, tramite una lettura con relativo questionario, cosa ricordano e cosa non ricordano gli studenti di quanto hanno studiato durante gli anni precedenti, come sono messi con la comprensione di un testo, quanto lessico hanno in più o in meno rispetto all’anno prima, e altre cose di questo genere, in modo che l’insegnante possa poi modellare il programma dell’anno scolastico appena cominciato sulle esigenze effettive e concrete, e non astratte e generiche, della classe.

Le esigenze effettive e concrete, e non astratte e generiche, della classe sarebbero principalmente l’aria condizionata e una serie di vigili urbani che sgombrassero l’area adiacente l’istituto dai caldarrostari con i pupazzi disegnati sull’avambraccio e sui polpacci, lo scatarro facile, l’accendifuoco liquido sempre a portata di mano per evitare che il copertone si spenga. Le esigenze effettive e concrete sarebbero anche tapparelle che si alzano e si abbassano normalmente, finestre che si chiudono e si aprono, una rete wifi che prende in tutte le aule e non solo in tre, un computer che non si impalla, un armadio per togliere dai piedi tutte le attrezzature che ogni giorno gli studenti si portano da casa ingombrando gli spazi fino a renderli striminziti, cose come il tappetino di gomma per educazione fisica, la cartella quadrata enorme per il disegno tecnico, le righe e le squadrette da sei metri ciascuna, la diamonica o la tastiera o il flauto per musica, il cartoncino Bristol dall’area stimata in 1200 kmq per arte e immagine, un set di novantanove colori a spirito e centoquattordici a matita, con relativi temperamatite elettrici, robotici, a molla, a funzionamento idraulico, a carbone, a metano o con ricarica usb.

Per esigenze effettive, concrete, e non astratte e generiche, della classe, in una prova comune, parallela o d’ingresso di italiano, si intendono invece le esigenze didattiche degli studenti: una messa a punto del loro percorso d’apprendimento, partiamo da qua (dove sembra che l’anno scorso siamo arrivati tutti), e cerchiamo di arrivare fino a qua (dove sembriamo essere in grado di arrivare tutti).

Ho nelle prove comuni o prove d’ingresso o prove parallele di italiano, grande fiducia, le considero un ottimo mezzo per capire, ragazzo per ragazzo, cosa c’è da fare in classe.

Il problema è che secondo me, pure quando hai identificato quali sono le esigenze didattiche della classe, rimangono due elefanti dentro la stanza che ti impedisce di affrontarle per come si deve, e cioè l’attenzione e la concentrazione dei ragazzi, tutte da conquistare e tutte da allenare.

Le caldarroste, per esempio, sono una grande fonte di distrazione, ai ragazzi piacciono, a me per niente, il fumo però ci distrae tutti, cerchiamo di cacciarlo via, o evitare che entri, chiudendo o aprendo finestre che non si aprono e non si chiudono, per fortuna però le caldarroste hanno durata stagionale, passa ottobre, passa metà novembre e passa pure l’aria appestata di caucciù che brucia alimentato dalla combustione di iprite e gas nervino. I ragazzi, invece, cioè gli studenti, le distrazioni se le portano appresso tutto l’anno insieme al resto della loro ingombrante attrezzatura.

Lo studente delle medie è distratto per molti motivi su cui è impossibile intervenire: alcuni riconducibili allo sviluppo ormonale e cerebrale, altri all’emotività tutta particolare tipica della pre-adolescenza, altri ancora causati dal contesto sociale e familiare di appartenenza. Queste cose non le smonti: se insegni alle medie, sai che avrai a che fare con studenti distratti, e più o meno ti specializzi nel far passare la didattica (al contrario di come il senso comune reputa che dovrebbe accadere) negli interstizi lasciati liberi dalla distrazione: toh, sono attenti, approfittiamone subito!

Si tratta più che altro di minuti, brevi successioni di istanti in cui il loro cervello, per una congiuntura tanto favorevole quanto inspiegabile, è predisposto a concentrarsi su qualcosa.

Tutto il resto dell’ora o delle ore che un insegnante ha a disposizione in classe andrà impiegato nella ricerca di questo momento magico, che va però appunto preparato, arato, seminato, pratica che richiede una quantità di tempo enorme e l’arte vera e propria di farsi trovare pronti quando si presenterà.

Ci sono insegnanti seriamente convinti, in perfetta buonafede, che alla loro capacità di mantenere la classe in perfetto silenzio e composta disciplina corrisponda uguale e simmetrica l’attenzione dei ragazzi a quello che in quell’aula si sta facendo. Può darsi, però dopo quasi otto anni di insegnamento ho motivi abbastanza fondati per sospettare che nella maggior parte dei casi non sia così: lo studente è seduto perfettamente dritto, col dorso allineato con allo schienale della sedia, il suo mento forma, filo a piombo, un angolo retto con la linea immaginaria che risale dal banco e interseca il suo guardo in un punto perpendicolare alla LIM o la lavagna, oppure è rivolto al libro di testo, posizionato al centro esatto di un banco totalmente sgombro da qualsiasi giocattolo o altro oggetto di cancelleria, lo studente ha insomma la postura, la prossemica, l’espressione facciale del discente assorto, però lo stesso sta pensando al temperamatite usb che ha nascosto dentro lo zaino. Sta smaniando in attesa del momento in cui suonerà la campanella e flipperà la bottiglia sessantamilaseicento volte in soli otto secondi (gli studenti delle medie sentono una mancanza lancinante della bottiglietta d’acqua da flippare, è parte di loro, è un prolungamento del loro braccio, se gliela sequestri gli viene la sindrome dell’arto fantasma). La porzione di tempo scelta dalla sua attenzione per dedicarsi a ciò che si fa in classe durerà comunque pochi minuti, e in più sarà molto più difficile, per l’insegnante, accorgersi che quei minuti sono arrivati, perché appunto, lo studente si comporta come se ogni minuto fosse quel minuto.

Le prove comuni, o parallele, o prove d’ingresso comunque mi piacciono molto perché danno notizia anche su questo, anzi danno notizia soprattutto su questo: per quanto tempo questo ragazzo riesce a tenere la mente fissa su qualcosa?

La maggior parte dei ragazzi, in una classe, è capace di concentrarsi sulla prova per tutto il tempo che serve. La quota di quelli che non ci riescono però sale ogni anno. Non dico ogni ciclo di tre anni (cioè a ogni nuova prima media), dico proprio che dall’anno prima all’anno dopo, in una prima media di venti ragazzi, il numero di quelli che sbagliano la prova perché non si concentrano nemmeno per quei pochi minuti necessari a comprendere un testo decisamente alla loro portata, cresce. Cresce e te ne accorgi per forza, specie se non li militarizzi.

Te ne accorgi a ogni ottobre, quando ci sono le prove comuni, o prove parallele, o prove d’ingresso, e in classe c’è quest’odore di caldarroste in cui si riconoscono tutte le inconfondibili note della mescola Continental.

Le distrazioni, in fondo, pensi mentre somministri queste prove d’ingresso, ci sono sempre state, io per esempio, alle medie, passavo il tempo a colpire di testa delle palline di carta che il mio compagno mi crossava, per fare gol in mezzo ai capelli ricci e foltissimi della compagna che mi sedeva davanti, una selva in cui si perdevano decine e decine delle mie cannonate. La mia compagna se ne accorgeva solo quando per accidente scuoteva la testa, perché a quel punto crollava giù lo stabilimento di Fabriano, partivano proiettili di carta sparati a raggio, lei si rendeva conto di essere infestata e continuava a scuotersi tipo cane bagnato, le palline finivano addosso ad altri compagni, il quali a loro volta le ritiravano a qualcun altro, l’insegnante vedeva che in classe era partita l’intifada e percuoteva la cattedra col pugno fino a sfondarla ma a noi sembrava solo un marziale rullo di tamburo fatto apposta per incitarci alla pugna e continuavamo, non eravamo molto concentrati neanche noi, in effetti.

Solo che l’assenza di concentrazione dei miei studenti è un po’ diversa da com’era la mia, se non altro nelle motivazioni.

Ad aumentare vistosamente ogni anno infatti è l’esigenza che un po’ tutti i ragazzi della classe sentono di un insegnante personale, a proprio uso esclusivo.

I ragazzi delle mie classi sono (o sarebbero) perfettamente in grado di leggere, comprendere, eseguire da soli i compiti richiesti dalla prova di italiano, molto più di quanto lo fossi io quando avevo la loro età. Solo che loro vogliono essere continuamente guardati dall’insegnante MENTRE la svolgono. Hanno bisogno, quale che sia l’azione da loro compiuta in quel momento, fosse anche il semplice sbarrare con una crocetta la casella giusta, di una persona, in particolare di un adulto, che li osservi che poi li applauda, li gratifichi, gli dica bravo, ottimo, sei un campione. Non appena questa gratifica, costante e immediata, viene sospesa (in classe ci sono circa venti ragazzi, a volte anche molti di più), l’attenzione verso il compito assegnato prima cala e poi svanisce.

Spesso, sempre più spesso, in classe la domanda si concreta e diventa proprio esplicita: prof ma io perché devo fare questa cosa se nessuno mi segue mentre la faccio?

Ho tentato la risposta premiale (non si dovrebbe, lo so, ma dentro l’aula, in ottobre, l’aria sa di castagne e neoprene, una cosa che scoraggia i comportamenti virtuosi): perché poi ci prendi un buon voto ed è una bella soddisfazione. A quel punto, parte la stessa domanda ripetuta venti volte: “Quando?”. Se rispondi: “La settimana prossima”, è la fine. Se dici: “Subito, appena voi finite, io le correggo”, succede che quasi tutti cercano di finire per primi. Non tanto per dimostrarsi bravi, intuitivi, svelti di comprendonio. Più che altro per guadagnarsi il diritto di mostrarti il prima possibile il foglio, le risposte, ottenere la tua attenzione di spettatore e il tuo applauso di pubblico. La cosa, ovviamente, ha una ripercussione sull’esecuzione della prova: l’importante non è farla bene, ma farla alla svelta, in modo da conquistarsi attenzione e gratifica in tempi congrui (la settimana prossima? Esiste la settimana prossima?).

La stessa cosa succede coi temi in classe (in didattichese: produzione scritta).

Assegni una traccia. Sembra anche piacergli, si mettono a scrivere. Il meccanismo però scatta subito, uguale a quello della prova d’ingresso: scrivono una frase, o meglio, spesso scrivono l’embrione di una frase, e ti chiamano perché vogliono leggertelo o fartelo leggere. Tu allora lo leggi, gli dici bene, vai avanti e loro vanno avanti, producono un altro embrione e subito ti richiamano. Lo fanno in dieci su venti, e alla fine dell’ora hanno scritto tre frasi, tu le hai già lette (un po’ le hai anche scritte tu) e secondo loro è di nuovo tempo di premi e gratifiche.

La prossima volta, dici allora alla classe, nessuno potrà chiedermi niente per almeno mezzora: scriverete da soli, leggerò solo quando avrete finito, scrivere è una cosa che si fa in solitudine, serve concentrazione e silenzio. Quando gli dici così, li senti parlottare tra loro, un serpeggiare di malcontento che matura in indignazione: vuole darci un tema così lui non lavora e per due ore si fa i fatti suoi.

Sentite, dici allora in consiglio di classe, agli altri insegnanti che ti chiedono come sono andate le prove d’ingresso d’italiano e a che punto credi siano gli studenti di quest’anno, io penso che le esigenze effettive e concrete di questa classe siano in realtà piuttosto astratte e generiche: si tratta più che altro di insegnargli arti braminiche come la concentrazione, l’attenzione, forse l’estasi o almeno la mistica, io non ho niente del bramino, io sono distratto tutto il tempo da quest’aria di ottobre così sporca e sinceramente ho in odio quei semidelinquenti che danno fuoco al bitume per arrostire le castagne, avete visto poi quanti pupazzi hanno sull’avambraccio, sui polpacci, chi gli può dire niente a dei tipi così, siamo sicuri che non sia questo il motivo per cui poi le prove d’ingresso vanno male? I colleghi ti dicono: ah ma io invece mi fermo sempre a comprare un po’ di caldarroste, poi le mangio a ricreazione, sono molto buone, oltretutto sai che sono quasi tutti ex alunni, si piazzano quassotto apposta perché sanno quanto ci piacciono le castagne, l’odore di caldarrosta, spesso ce ne regalano un cartoccio.

Le prove comuni, durante il mese di ottobre, in Sicilia orientale, a me alla fine continuano a piacere lo stesso. Ai ragazzi, quando le riconsegno, dico: per me siete stati tutti bravi, sono andate bene, complimenti, siete proprio una bella classe. Non è vero. Le prove sono andate maluccio. Qua dobbiamo fare qualcosa, mi dico mentre tesso le lodi fittizie dei miei studenti: se questi qua non si concentrano poi magari da grandi si danno alla caldarrosteria e si mettono quassotto a disturbare coi loro miasmi le prove di ingresso dei prossimi studenti, e non se ne esce più.

Mario Fillioley

Ho tradotto libri dall'inglese in italiano. Poi ho insegnato italiano agli americani. Poi non c'ho capito più niente e mi sono messo a scrivere su un blog con un nome strano: aciribiceci.com