Le memorie di un’insurrezione

Ci sono dei libri che, se ci si attiene al titolo e alla storia che promettono di trattare, risultano fuorvianti. Memorie dell’ insurrezione di Varsavia del poeta polacco Miron Białoszewski (apparso in polacco nel 1970 e ora appena pubblicato da Adelphi, a cura di Luca Bernardini) tratta di un fatto storico, una tragedia nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

Quando acquistai quel libro, alla fine degli anni Settanta, in un disordinato antiquario di Cracovia, sperando mi fosse utile per il saggio che stavo scrivendo sull’Insurrezione del 1944, dal punto di vista dei fatti storici non ne cavai fuori niente, ma da quello umano ne trassi una grande lezione di sano e antieroico individualismo, oltre che un godimento linguistico e letterario intenso. Confesso che, in alcuni passaggi, mi venne da sorridere anche un po’. Un libro su un dramma enorme che lo esorcizza con il racconto di situazioni comiche (o che, per contrasto, lo sembrano).
Quella vicenda, ancora oggi, continua a dividere i polacchi tra coloro che la considerano una delle espressioni più alte del patriottismo e dell’eroismo e quelli che, come i governanti comunisti imposti da Mosca nel dopoguerra, ma anche molti intellettuali all’opposizione, l’hanno definita, pur nel rispetto doveroso delle vittime, un grave errore politico e un’inutile strage. Per questo il generale dell’esercito polacco all’estero Władysław Anders la definì addirittura un “crimine”.

Un fatto simile all’ Insurrezione di Varsavia avvenne, in un significativo parallelo, nel maggio dello stesso anno, a Montecassino, dove le truppe polacche, che combattevano con gli alleati, ed erano comandate proprio dal generale Anders, furono decimate. Lo scrittore Gustaw Herling, che vi prese parte, ne parlò nel suo Diario scritto di notte (Feltrinelli, 1992): “È facile oggi sostenere che, cinque mesi dopo gli accordi di Teheran, era una cosa politicamente inutile. Così come può sembrare facile, se non ancora più categoricamente, il giudizio sull’Insurrezione di Varsavia. Ci sono dei processi che, una volta mesi in moto, e fomentati spesso, non si possono fermare a un passo dalla loro realizzazione senza il rischio di una capitolazione spirituale per lunghi anni. La storia dell’ “Esercito dell’interno” (AK) andava sin dall’inizio verso l’Insurrezione, così come nella storia del Secondo corpo di Anders era iscritta sin dall’inizio la battaglia”. Il poeta premio Nobel, Czesław Miłosz, aveva scritto, ne La mente prigioniera (1953): “I capi polacchi che diedero l’ordine dell’insurrezione di Varsavia nel 1944 sono colpevoli di stupidità e la loro colpa ha carattere individuale. Ben altra però è la colpa individuale che pesa sul comando dell’Armata Rossa non venuto in aiuto agli insorti, una colpa non certo dovuta alla stupidità bensì a perfetta intelligenza dei ‘processi storici’: cioè a una esatta valutazione dei rapporti di forza”.

L’insurrezione di Varsavia (che durò dall’1 agosto al 2 ottobre 1944), preceduta l’anno prima, nell’aprile, dalla tragica Insurrezione del Ghetto ebraico, chiuse un’epoca della storia della Polonia, e contribuì a dare un preciso indirizzo a quella europea. I comandanti partigiani dell”Esercito dell’interno”(AK) ritennero che le truppe tedesche si stessero ormai ritirando e tentarono di liberare da soli la capitale (anche perché molti di loro, dopo quanto erano venuti a sapere della “liberazione sovietica” di Vilna e Leopoli, erano certi che sarebbero stati arrestati, deportati in Unione sovietica e uccisi).

La vera essenza di una tragedia è non avere alternative. La reazione tedesca fu tremenda: in quei due mesi di battaglie casa per casa e di repressione indiscriminata persero la vita 200.000 civili, 15.000 insorti e l’80 per cento degli edifici storici della capitale (con biblioteche, archivi, musei) fu bruciato o fatto saltare in aria. Venne così cancellata la possibilità della Polonia di continuare a essere una nazione indipendente e fu sancito, tra le macerie fumanti, l’accordo di spartizione dell’Europa, sottoscritto a Teheran tra le grandi potenze. Gli inglesi e gli americani infatti lasciarono soli gli insorti e le truppe sovietiche si fermarono al di là del fiume Vistola ad aspettare che i tedeschi compissero l’opera di annientamento di coloro che avrebbero potuto dar nuova vita a quella Polonia la cui soppressione e smembramento (con il patto Ribbentrop-Molotov) era stata la causa scatenante della seconda guerra mondiale.

Perché quella gente, tra le macerie e i canali delle fogne, quando era ormai evidente la sconfitta, quando era ormai chiaro che erano stati abbandonati da tutti, continuò a farsi ammazzare? Una risposta sulla quale riflettere la fornì il regista polacco Andrzej Wajda che allora era un ragazzo e dedicò a quella vicenda uno dei suoi più intensi film, Kanal. I dannati di Varsavia (1957): “I protagonisti di Kanal sono gente che ha già perso e che vuole soltanto salvare la faccia. In fondo non cercano che una cosa, in questa situazione senza precedenti, senza scampo: cercare di essere coerenti. È per questo che lottano. Non hanno più nessuna speranza di vincere. In fin dei conti, si possono capire. Un tentativo di arrivare a una sorta di vittoria morale, una cosa che, chiaramente, nella nostro letteratura, nella nostra tradizione (soprattutto romantica) ha delle radici assai profonde”.

Con questo tragico garbuglio di fatti e controverse interpretazioni alle spalle, il poeta Miron Białoszewski (1922-1933), pubblicò nel 1970 (“quasi fuori tempo massimo”), quello che si annunciava come una sorta di memoriale, di testimonianza, di quegli avvenimenti. Ad alcuni il libro non piacque, considerandolo un punto di vista troppo “privato”. Un critico scrisse che Białoszewski era “un infante troppo cresciuto alla mercé della mammina e del suo tubo digerente”; un altro, alludendo all’omosessualità dell’autore, sostenne che i suoi ricordi erano “lo sguardo e la memoria di un … vigliacco spaventato e terrorizzato che è in grado di vedere e ricordare solo ciò che gli permette di smarrire la sua stessa mostruosa diversità, celarla, spiegarla, tipizzarla”.

Memorie dell’insurrezione di Varsavia è invece un capolavoro, finalmente disponibile, in una bella traduzione, anche in italiano. Un libro che non deve ingannare e anche diverte. Come può esserlo il racconto di una tragedia se la si osserva di sottecchi, non facendosi sfuggire l’assurdità degli accadimenti, le piccole miserie umane, le ossessioni incomprensibili, il gusto per i fatterelli. E, soprattutto, se il racconto sembra quello di uno che si è trovato, senza volerlo, dentro il ciclone degli avvenimenti senza capire bene il perché e lo narra come un flusso di coscienza, con amnesie e fraintendimenti, inventandosi buffi neologismi, commentando e quasi borbottando come fanno certi bizzarri individui al bar. Verità e non verità, inevitabilmente, si mischiano e si confondono.

Uno straordinario monologo orale dove la spontaneità della scrittura “copia” la spontaneità dei sentimenti reali. Come ha ricordato il suo amico Leszek Solinski, Białoszewski recitò prima la storia al magnetofono e poi successivamente la trascrisse, riascoltandola molte volte. La freschezza del racconto orale, di uno che riracconta trentacinque anni dopo quello che vide e sentì, si percepisce molto bene. Ovviamente l’apparente naturalezza di queste pagine è frutto di un complesso artificio che si basa sul ricorso a una lingua infantile e a una fraseologia tipica della lingua corrente, comune, antitetica a quella culturalmente alta. Nelle pagine del libro entra ed esce continuamente una figura che sembra l’ombra dell’io narrante: Swen, che era lo pseudonimo letterario di un grande amico di Białoszewski che condivise con lui attività di teatro clandestino durante l’occupazione tedesca: Stanisław Swen Czachorowsk (1920-1994). Nelle Memorie si parla esclusivamente di civili e si tralascia volutamente la dimensione militare degli avvenimenti. Come nota giustamente il curatore dell’edizione italiana, Luca Bernardini: “Białoszewski riproduce il processo di distruzione di Varsavia attraverso la lingua e nella lingua (…) Dal momento che quell’esperienza era priva di precedenti, le parole atte a trasmetterla dovevano essere inventate”.

Il libro è pervaso da un senso di stupore, che è la chiave per evitare ogni enfasi retorica e patriottica nel descrivere la tragedia che scaturisce dallo scontro tra l’esperienza della vita comune, della vita quotidiana, e le spietate esigenze della Storia. Per questo, l’opera di Białoszewski è dominato da una meraviglia infantile. Questo “sguardo infantile” (al di là dell’originale tono letterario) dà al libro una freschezza e una straniante profondità che lo rende, dopo cinquant’anni, paradossalmente, una delle opere più intense e utili a capire che cosa accadde in quell’Insurrezione. Più di tanti libri di Storia, le “memorie” di Białoszewski fanno anche un grande servizio a una verità che non è quella politica, ma umana al cospetto del dilagare della violenza e della distruzione. Non è un caso, forse, che uno dei documenti più interessanti, sull’Insurrezione sia un altro “sguardo infantile”, stavolta autentico: le paginette di un quaderno riempito dall’ordinata calligrafia di una ragazzina dalla trecce bionde, piccola cronista che, con quella acutezza che solo i bambini spesso hanno, ci ha permesso di comprendere meglio ciò che accadde. Wanda Przybylska ci ha lasciato con il suo diario una testimonianza preziosa dell’ Insurrezione di Varsavia (W. Przybylska, Una parte del mio cuore, Sandron, Firenze 1963). Questa quattordicenne, come altre centinaia di minorenni che risiedevano nella capitale polacca, perse la vita in quelle tragiche giornate, colpita da una pallottola tedesca.
I sopravvissuti della battaglia e della distruzione della città, vennero deportati dai soldati tedeschi e rinchiusi in campi di concentramento improvvisati in attesa di essere deportati altrove. Alla conclusione di Memorie dell’insurrezione di Varsavia la situazione dei varsaviani sopravvissuti sembra quella di gruppi di gitanti in attesa di partire. L’io narrante vuole andare, con il padre, a Częstochowa (dove c’è il famoso monastero che conserva l’icona della Madonna Nera, protettrice della Polonia): “La prima persona dell’insurrezione che vidi, tutto d’un tratto, la sera accanto al chiosco a Częstochowa fu la mamma di Swen, e la seconda Swen che la teneva sotto il braccio. Varsavia la rividi nel febbraio 1945”. La mamma e la Madonna chiudono la Storia.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).