Le curve sono importanti

Molte delle conversazioni in cui io e quelli con cui parlo facciamo più fatica a capirci hanno un problema di curve. Ad esempio, io dico che la scuola italiana dovrebbe insegnare di più a coltivare un certo gusto per l’ambizione e l’eccellenza, e il mio amico G. mi risponde: “Eh, ma guarda l’America. Si stressano i ragazzini con classifiche e ambizione e competizione sin dalle elementari e a 16 anni sono già esauriti!”

Oppure io dico a un altro amico che dovremmo essere un pochino più bendisposti verso soluzioni mediche eterodosse e lui mi risponde col post su Facebook di una sua parente che dice che si può curare il cancro con la cipolla cruda. È questo che voglio?

In genere, in questi casi, io e i miei amici abbiamo in mente curve molto diverse.

Nel primo esempio – quello della scuola – la curva che ho in mente io è grossomodo così:

Sull’asse orizzontale c’è il gusto per l’ambizione e l’eccellenza o come volete chiamarlo. Sull’asse verticale c’è lo scopo che vogliamo raggiungere, chiamiamolo bene comune o benessere collettivo, B. Ai miei tempi, alle medie e al liceo, stavamo grossomodo al punto A. Di gusto per l’eccellenza e aspirazioni di “successo” non ce n’era traccia. “Successo” era una parola da film americani, volgare, materialista e senza poesia. La mia proposta sarebbe di spostarsi dal punto A al punto B: un bel balzo. Ma non di arrivare fino al punto C, che è la scalmanata e squinternata competizione estrema del sistema scolastico americano.

Nella mia curva, B è meglio di A, ma A è meglio di C, come potete vedere misurandoli sull’asse del benessere collettivo. L’ambizione non è tutta buona o tutta cattiva. C’è un punto ottimale, che sta dalle parti di B. Ma gli estremi sono nocivi. Mentre invece il mio amico G. ha in mente grossomodo una retta, con l’ambizione che guasta e corrode sin dalla prima dose. Più ambizione c’è, peggio è.

Nella curva del mio amico G. non importa sapere dove ci troviamo in questo momento. Vuoi aumentare il gusto per l’eccellenza nella scuola? Pessima idea! Ogni pochino di ambizione in più comporta un pochino di benessere in meno. Nella mia curva è invece fondamentale sapere a che livello siamo ora. Se siamo al punto A, aumentare il livello di ambizione è una buona idea. Se siamo al punto B, è un’idea rischiosa. Se siamo al punto C, è una cosa assolutamente da evitare: anzi, meglio ridurlo.

Nel secondo esempio, quello sul dar credito alla medicina alternativa, la curva che ho in mente è più o meno così:

Dare più credito a teorie che non godono dello stampino ufficiale del consenso medico-scientifico è una cattiva idea in quasi ogni punto della mia curva. Ovunque vi troviate sull’asse della fiducia riposta nella medicina alternativa, è quasi sempre una buona idea riporne meno. Infatti, spostandosi a sinistra sull’asse Medicina Alternativa, ci si sposta anche più in alto sull’asse V, che sta, un poco enfaticamente, per Verità, o meglio per ragionevole probabilità che una certa teoria o terapia si riveli accurata o efficace.

C’è però una piccola zona lassù in alto a sinistra in cui qualche esperimento eterodosso in più può giovare. È un piccolo tratto in salita della curva, ma guarda caso è il tratto in cui si trova molta gente che frequento: coscienziosi, disciplinati, scettici, scientifici, gente che segue sempre le linee guida dell’autorità ufficiale. Se sei in quel piccolo tratto di curva, forse dovresti sperimentare un po’ di più.

Questa cosa si può anche spiegare senza disegnare curve. Ma senza curve è un poco più astratta e difficile da seguire. Prendete l’esempio della vitamina D e il Covid. All’inizio della pandemia, qualcuno cominciò a dire che forse la vitamina D era utile per combattere l’infezione da coronavirus. Il Post, che è sempre molto coscienzioso, si affrettò a smentire la cosa: “Non è vero che la vitamina D serve contro il coronavirus”.

Ma le cose sono un po’ più complicate di così. Quando mi misi a leggere sulla questione, trovai che c’erano pochi elementi per dire che il nesso tra vitamina D e Covid fosse probabile, ma c’erano sufficienti indizi per essere quantomeno curiosi, soprattutto considerato che assumere integratori di vitamina D è facile e poco costoso, e comporta (se fatto bene) rischi piuttosto bassi. (Questo non è, ovviamente, un consiglio medico ed è una buona idea parlare di queste cose con un medico.)

Ora, come ci si pone davanti alla questione se assumere vitamina D contro il Covid? Be’, c’è un’ampia fetta della popolazione (tra cui varie persone a me molto care) che ha una fortissima inclinazione a dar molto credito precisamente a teorie di questo tipo, che dubitano delle linee guida ufficiali. Troppo credito, se lo misuriamo con la mia curva. Per dire: l’omeopatia ha in Italia un giro d’affari di circa 300 milioni di euro l’anno! E molta stampa italiana è notoriamente nel business di solleticare le intuizioni della gente, invece che in quello di informare. Dunque, sia lodato il Post per la sua coscienziosità e il suo “ufficialismo”. Se ti trovi, come buona parte della popolazione, sul tratto principale della mia curva, il consiglio di dare meno credito alle teorie alternative è sempre un buon consiglio. Infatti, su quasi tutti i punti della mia curva, spostarsi a sinistra sull’asse della Medicina Alternativa aumenta le chance di avvicinarti a come stanno per davvero le cose.

Ma se stai in quella piccola zona di eccesso di ufficialismo in alto a sinistra, su quel piccolo tratto in salita, be’, tenderai a non lasciarti neppure incuriosire dalla storia della vitamina D, che ha tutta l’aria invece di essere un esperimento a basso costo e basso rischio e potenziale guadagno per la collettività. Che è poi il motivo per cui questa storia ha incuriosito tanti scienziati, che nei mesi successivi hanno fatto vari studi clinici sul legame tra vitamina D e Covid. Per quel che ne sappiamo un anno dopo, non è molto probabile che la vitamina D faccia davvero bene contro il coronavirus. Ma ciò non vuol dire che a marzo 2020, quando dicevo ai miei amici e a mia madre che forse un supplemento di vitamina D non era poi una scommessa così insensata, sperimentare fosse una cattiva idea.

Facciamo un esempio più complicato. L’altro giorno ho intravisto su Twitter che Luca Sofri diceva che siamo tutti responsabili delle notizie che condividiamo sui social. Qualcuno gli rispondeva più o meno così: Secondo Luca Sofri prima di condividere le foto dell’atterraggio di Perseverance dovremmo andare su Marte a controllare se la sonda è atterrata per davvero.

Non mi interessa indagare qui le effettive teorie di Sofri e del suo lettore. Userò delle mie versioni (come le ho capite io) come esempi di curve. Personalmente, penso che siamo responsabili di tutto quello che condividiamo sui social. Così come siamo responsabili di tutto quello che diciamo agli amici, ai vicini, e agli estranei.

Allora dobbiamo davvero andare a controllare su Marte prima di condividere le foto di Perseverance? No, direi di no. Ma non è comunque meglio andare a controllare? Se siamo responsabili, più cautela è sempre meglio di meno cautela, giusto? Be’ dipende dalle curve.

Tanta gente legge il tweet di Sofri e vede questa curva qua:

Poniamo che sei al punto A, cioè hai visto la notizia di Perseverance sul sito rimedinaturali punto rs. La condividi? Non mi pare una buona idea. Se sei un po’ più cauto e controlli su Repubblica o sul Corriere – cioè ti sposti dal punto A al punto B – è decisamente meglio. Adesso puoi condividerla? Be’, forse; ma se controlli sul sito della NASA, al punto C, è meglio ancora. Sai com’è coi siti di Repubblica e del Corriere, non si sa mai.

E adesso? Il sito della NASA è affidabile? O devi andare su Marte a controllare che la sonda sta per davvero là? Marte è il punto D, e nella curva attribuita a Sofri spostarsi da C a D è una buona idea. Infatti D è più in alto di C sull’asse del benessere collettivo. Ma andare su Marte prima di cliccare “share” su Facebook è ovviamente assurdo, quindi Sofri deve avere sicuramente torto.

Ora, quando io dico che siamo responsabili di tutto quello che condividiamo, ho invece in mente una cosa del genere (questa è la mia teoria, non necessariamente quella di Sofri):

La curva rossa misura il costo dell’inaccuratezza. Più sono cauto – cioè più mi sposto dal sito ignorante a Repubblica alla NASA e fino a Marte – meno rischio di far circolare balle. Le balle hanno un costo. Quelli che leggono i miei post su Facebook sono solo 24 o giù di lì. Ma anche solo 24 persone con meno balle in testa sono pur sempre un’ottima cosa. E se anche qualcuno di questi 24 dovesse poi condividere il mio video farlocco coi loro contatti, e così via, le balle potrebbero raggiungere migliaia e migliaia di persone nel giro di pochi passaggi. Pensare di non avere alcuna responsabilità in questa catena è bizzarro.

Se poi invece di 24 di lettori ne hai migliaia o decine di migliaia, ovviamente la curva del costo dell’inaccuratezza si posta parecchio più in alto.

Ma c’è anche un’altra curva, la curva blu. La curva blu misura il costo dell’accuratezza. Stare attenti costa. Innanzitutto, costa tempo e energie. Leggere, studiare, controllare sono attivita’ costose. Ma essere cauti costa anche ritardi e omissioni. Se trovo un paper che riporta uno studio clinico sull’efficacia della vitamina D contro il Covid (giusto per usare di nuovo lo stesso esempio di prima), lo condivido su FB oppure no? È solo uno studio, dopotutto. È uno studio di qualità? Ce ne sono stati altri che dicono cose diverse? Non sono un esperto della materia, ma potrei provare a capire se chi ne capisce di più si è fatto un’idea e che idea si è fatto.

L’esercizio è costoso, ma anche l’omissione di questa informazione potrebbe essere costosa. Metti che anche solo uno dei 1.000 amici di amici di amici che leggerebbero la notizia condivisa da me ha una carenza di vitamina D, e metti che c’è una probabilità su 100 che se prende degli integratori la sua malattia da coronavirus sarà significativamente più lieve. Be’, forse aspettare di essere ancora più accurati – ad esempio, aspettare le linee guida del WHO – può essere costoso.

C’è un trade-off, come dicono gli economisti. La curva nera è la somma dei due costi. Al crescere dell’uno, l’altro diminuisce, e il livello di cautela ottimale è quello in corrispondenza del punto P. Calcolare questo punto con esattezza è ovviamente impossibile nella vita reale. Ma ognuno di noi è responsabile del suo calcolo spannometrico. Anche se non lo facciamo coscientemente, se decidiamo di condividere una notizia oppure ci prendiamo 10 minuti o 30 o 300 per controllare (o decidiamo di non condividerla affatto), stiamo facendo un calcolo sommario e grossolano di dove sia il punto P.

E più sono le persone che potrebbero beneficiare o essere danneggiate dalle cose che scrivi, più la decisione che prendiamo è importante. Essere responsabili vuol dire questo. Ma se non ci si intende sulle curve, sarà molto difficile capirsi.

Una buona pratica quando si discute è chiedere: Che curva hai in mente? E se vi guardano strano fate un disegnino sul telefono (possibilmente meglio dei miei). Se provate a disegnare una curva, siete costretti a farvi molte domande. Che metto sull’asse orizzontale? Che metto su quello verticale? Come si muove la curva? E perché qua scende e qua sale? Quale è la mia teoria per spiegare quest’andamento?

Quando si passa a parlare di curve si deve necessariamente parlare dei dettagli delle vostre teorie. Della sostanza, insomma, invece che di quel suona retoricamente efficace o rassicurante. Spesso si scopre che il disaccordo riguarda qualche specifico dettaglio. Non la forma della curva, ma il punto preciso col miglior valore sull’asse verticale. Son questioni complicate, sempre. Ma finché non si passa a parlare di curve, la conversazione vera non è neppure cominciata.

Roberto Tallarita

Studia cose tra diritto e economia, ma ha sempre il cruccio della filosofia. Ha vissuto in Sicilia, a Roma, a New York, a Milano; e ora a Cambridge, Massachusetts. Gli piacciono i libri, i paesaggi americani, e le discussioni sui massimi sistemi. Scrive cose che nessuno gli ha richiesto sin dalla più tenera età. Twitter: @r_tallarita