L’anima dell’Europa

Quando Sigmund Freud dovette dare un nome alle scoperte che andava facendo delle varie forme nelle quali si manifesta il disagio delle nostre anime, fece naturalmente ricorso a delle metafore che chiamò col nome di alcuni personaggi del mito greco. Ce lo fa puntigliosamente notare George Steiner, nell’introduzione al suo bellissimo libro Le antigoni (1984; trad. it. Garzanti 1990), sottolineando come il nostro inconscio sia “abitato” da Edipo, Giocasta, Laio ecc. Questo per dire di quanto profondo sia il radicamento del mondo antico dentro di noi. Del resto, la nostra identità europea, ribadisce Steiner in Una certa idea di Europa (2004; trad. it. Garzanti, 2006), si fonda sulla cultura ellenista e latina, che stanno alla base dell’umanesimo che dà vita all’idea di Europa.

Basterebbe questo per sostenere che lo studio dei greci e dei latini sia indispensabile per capire cosa siamo e per rendere un po’ più saldi i valori comuni dell’Europa. Oggi si tende, utilizzando tra l’altro un termine inglese (“humanities”), a considerare tutto ciò che non è scientifico (nel senso tradizionale): umanistico. Ma questa idea è profondamente sbagliata e si fonda su un grave fraintendimento della cultura antica. La separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica è il frutto avvelenato di una decadenza culturale che comincia nel XIX secolo, e che proprio in Italia ha trovato una delle massime espressioni in una diffusa visione del mondo antiscientifica che ha legittimato l’ignoranza (nessuno, ad esempio, si vergogna a dire di non capire niente di matematica o fisica…). Per gli antichi, per gli uomini rinascimentali, per gli artefici dell’Enciclopedia, la cultura era una sola: i pittori erano scienziati; i filosofi biologi; i matematici poeti; gli architetti scrittori.

L’essenza dell’”Umanistico” è il mondo cosiddetto “Classico”, che era capace di tenere assieme tutto il sapere, senza divisioni. Solo tenendo ben presente questo atteggiamento è possibile “riattivare il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione”, come ha spiegato in modo abbastanza convincente Edgar Morin nel suo libro I sette saperi necessari all’educazione del futuro (2009) e ribadito ne La via. Per l’avvenire dell’umanità (2011): la natura complessa della conoscenza e il suo rapporto con l’incertezza; l’unità bio-psico-antropologica della condizione umana; il pianeta Terra come destino comune dell’umanità; l’etica della comprensione.

Senza gli studi umanistici non c’è futuro per l’Italia per l’Europa. Senza la storia, la filosofia, l’arte, la musica, la letteratura e la poesia non soltanto praticate (da, auspicabili sempre più ampi settori della popolazione), ma anche studiate e interpretate, fruite e godute, decreteremmo la nostra fine, in un mondo impazzito dove soltanto il denaro e la legge del più forte domineranno la vita degli uomini: dove i giovani e gli anziani si combatteranno ferocemente per farsi spazio gli uni a spese degli altri, come nel romanzo di Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra al maiale (1969), dove si immagina che un bel giorno, all’improvviso, i giovani di Buenos Aires decidano che chi ha più di cinquant’anni è inutile alla società. Si scatena così una feroce e indiscriminata guerra agli anziani e per una settimana intera i giovani si impegnano a dare loro la caccia e sterminarli.

La cultura classica, per prima e in modo inimitabilmente profondo, ha sconfitto la legge della giungla, insegnando ai giovani e agli anziani a collaborare e a trarre assieme il meglio delle proprie età. Gli anziani, nell’antichità, insegnavano che la vita ha senso se riusciamo a trasformare la morte in vita. Questo oggi non lo insegna più nessuno.

La cultura è diventata compiutamente industria culturale, che vive e si alimenta soprattutto sul conflitto generazionale. Si pensi, ad esempio, alla stupidità e superficialità di certi movimenti d’avanguardia (oggi tanto esaltati) che si sono fatti avanti a gomitate teorizzando, e a volte praticando (come nei totalitarsmi del XX secolo), il mito dei giovani contro gli anziani, del nuovo contro il vecchio, del progresso contro la tradizione. La classe dirigente italiana è stata, fino a pochi anni fa, formata attraverso gli studi umanistici, che avevano la loro base nel mitico liceo classico. Quel mito non funziona più. Quante volte abbiamo sentito ripetere, dai nostri insegnanti, il ritornello che il greco e il latino servono ad “aprire la mente”. È una mistificazione: tutte le cose che si studiano e sulle quali si ragiona “aprono” la mente. Ma se uno dei fini della formazione deve essere questa “apertura della mente”, allora la logica e la matematica, con lo straordinario sviluppo che hanno avuto negli ultimi centocinquant’anni, la “aprono” molto di più.

Non è questo che serve a mantenere viva la ricchezza del mondo classico, ancora così importante per noi. Il fine di un liceo classico (o umanistico che dir si voglia) deve essere quello di trasmettere e far vivere una visione del mondo della quale siamo parte, e dobbiamo continuare a esserlo, se ci vogliamo salvare. Il liceo umanistico va riformato nel senso di una valorizzazione dei contenuti: invece di costringere i ragazzi a imparare due lingua morte col fine di estenuanti lavori di traduzione, con il vocabolario, dei quali non rimarrà loro, dopo pochi anni, nessuna abilità. Nei cinque anni del liceo, l’obiettivo deve essere quello di far leggere, in buone traduzioni in italiano (e ce ne sono!), un numero maggiore possibile, di: 1) storie e gli studi sui miti; 2) tragedie greche e commedie latine; 3) poesie e frammenti filosofici; 4) testi filosofici (che erano poi spesso anche testi scientifici; 5) storia dell’arte e dell’architettura greca e latina; 6) testi di storia (primo fra tutti le Storie di Erodoto di Alicarnasso, che il polacco Ryszard Kapusciński considerava, giustamente, il testo fondamentale per insegnare la tolleranza e la comprensione tra le genti).

Le lingue e le grammatiche antiche e la filologia, le studieranno poi, all’università, coloro che si sono veramente appassionati e tra questi verrà severamente selezionato un numero limitato, che avrà la possibilità di investire il proprio futuro in quel campo di studi, finanziato dalla comunità.
Uno degli ultimi veri umanisti, Pierre Hadot (1922-2010), che con i suoi libri – basti pensare a: Esercizi spirituali e filosofia antica (1988); Che cos’è la filosofia antica?(1998); La filosofia come modo di vivere (2001) – ha fatto comprendere meglio il pensiero antico, ricollocandolo nel suo vero contesto e, allo stesso tempo, lo ha proposto come una “medicina” per il nostro tempo, sosteneva che “le opere filosofiche dell’antichità non sono state composte per esporre un sistema, ma per produrre un effetto formativo”. Filosofia è esercitarsi a vivere, è “terapia delle passioni, è saper ben distinguere tra libertà e natura”.

In un momento in cui l’Europa è, da parecchi anni, messa male, è bene tenere presente ciò che dice George Steiner: «le nostre opportunità sono esattamente quelle di cui fu testimone la luminosa alba dell’Europa con il pensiero greco e la moralità ebraica.(…). L’Europa deve riaffermare alcune audacie dell’anima che l’americanizzazione del pianeta ha oscurato: la ricerca disinteressata del sapere e la creazione della bellezza. La dignità dell’homo sapiens».

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).