L’agile Pd tra la polvere eurosocialista

Non bisogna sorprendersi se, con una rapida e indolore procedura burocratica, il Pd stia per entrare dopo tanti anni e tante discussioni nel Pse, cioè in uno (ci perdoni Gianni Pittella) dei luoghi più inutili della politica internazionale. Senza troppe angustie e troppi interrogativi ideologici, Renzi con tutta la sua freschezza e gioventù fa un salto dentro una chiesa polverosa e poco frequentata, nota per i suoi convegni e congressi e position paper, ma totalmente latitante di fronte a qualsiasi crisi, qualsiasi discussione di peso, qualsiasi momento decisivo della vita europea.
Renzi porta il Pd nel Pse per togliersi un problema e per poter fare a Roma, in marzo, una folgorante apparizione personale al convivio annuale degli eurosocialisti, convinto che gli possa essere utile per la sua prima cruciale campagna elettorale da segretario, quella di due mesi dopo per Strasburgo.

Nulla di male. Stare fuori o dentro al Pse è un fatto sostanzialmente irrilevante, come l’istituto stesso. Per tanti democratici dalle salde radici – ex comunisti, ex democristiani, ex liberali – la decisione ha un retrogusto dolce o amaro, a seconda: risveglia antiche passioni, disegni di integrazione socialista o timori di assimilazione. Sono sentimenti e ragionamenti importanti, storie delle quali si difende la coerenza.
Per Renzi nulla di tutto questo conta. Lui è convinto che ogni dilemma che abbia a che fare con qualsivoglia eredità sia da spezzare, non da sciogliere. È la sua persona, l’incarnazione stessa del nuovo e dell’inedito, che garantisce per la positività e l’accettabilità di qualsiasi scelta che per altri è stata o sarebbe stata faticosa, controversa. Ostacoli obsoleti si superano con agilità. Oppure si aggirano, con noncuranza.
Del resto non è lui il primo degli ex della Margherita che non s’è mai soffermato neanche un attimo sulla cruciale (per altri) distinzione tra sinistra e centrosinistra? E badate che l’imposizione rutelliana e popolare agli ex Ds della collocazione “di centrosinistra” fu fattore determinante perché il Pd potesse nascere. Macché: Renzi si sente e si dice leader di una sinistra moderna e post-ideologica, di quella correzione al “centro” non sa che fare.

C’è da prendere atto di questa facilità d’approccio, che certo riduce le questioni meritevoli di riflessione e dibattito a ben poche. Una sinistra che si lacera di meno, va per le spicce, si muove più velocemente: non l’abbiamo forse invocata per anni? E non abbiamo forse sofferto e perso, quando agli inizi del fenomeno Berlusconi cercavamo di inchiodare a dettagli e contraddizioni ideologiche o politologiche chi invece andava diritto al cuore di concetti semplici, immediati, comprensibili per tutti, solcando trasversalmente ogni appartenenza e convinzione politica del passato (con una sola rilevante eccezione: la persistenza eterna di comunismo e anticomunismo)?

Ma lasciamo perdere Berlusconi: Matteo Renzi non reca con sé alcuno di quegli equivoci, il suo essere leader di sinistra moderna con valori molto precisi è un dato acquisito, contestato ormai solo da pochi residui avversari rancorosi. È il metodo, l’agilità e la spregiudicatezza, che possiamo confrontare.
Bene, sapremo presto se appunto il metodo di tagliare i nodi senza perder tempo a scioglierli funziona e risolve i grandi problemi, o se le questioni ideologiche di fondo non usciranno a un certo punto dall’ombra e dal passato per afferrare i piedi di chi le ha sfidate e ignorate.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.