La vergogna non ci serve

C’è una passione nazionale che riguarda tutti, politici e commentatori, cittadini di qualsiasi estrazione e posizione sociale: è la vergogna. Siamo un paese che impazzisce per la vergogna, la invoca di continuo, la suggerisce, la auspica anche se in genere non la pratica. Lo fanno Renzi, Salvini, Di Maio, a volte rimpallandosela a vicenda; lo fanno gli habitué del bar commentando le notizie sul giornale tenuto dalla stecca di legno, poco prima di uscire dal locale con slancio teatrale; lo fanno gli opinionisti in tv alzando la voce mentre in sottofondo brulica un applauso nascente; twitter non ne parliamo, è una fiera del settore. “X si dovrebbe vergognare” e “x farebbe bene a vergognarsi” sono le formule più diffuse: qui si ipotizza che il gesto sia opportuno, largamente riconosciuto come tale. C’è quasi un’intenzione collaborativa, solidale, di chi da fuori arriva e segnala un problema serio che merita interventi tempestivi: ormai è così, tocca farlo, bisogna vergognarsi. Ma anche il secco “Vergogna!” fa sempre il suo effetto. Rapido, solenne, spesso in chiusura, arriva magari alla fine di un tweet sferzante, oppure accompagnato da un dito alzato al cielo in un intervento alla Camera, col presidente di turno che già scampanella. Ci sono in ogni categoria professionale dei virtuosi del genere. Laura Boldrini e Massimo Gramellini, per esempio, sono due vergognisti convinti.

Verrebbe da dire che questa della vergogna sia una strategia più cara alla maggioranza di governo, con la sua naturale tendenza al populismo, alle gogne e al crucifige, ma non è così. Dai tempi delle monetine a Craxi, non è così. Il PD, chi è a sinistra del PD, al centro, a destra, nei partiti della moralità e in quelli dell’immoralità, senza distinzione, tutti più o meno spesso biasimano l’avversario intimandogli di vergognarsi. Ora ognuno legga quello che vuole, ma parlo soprattutto all’opposizione quando dico che questo della vergogna è sia un tic comunicativo deleterio, sia il segno di qualcosa più grande e forse più difficile da cambiare. Chiedere a un avversario politico di vergognarsi è inopportuno per una serie di ragioni che riguardano l’efficacia della pratica e i ruoli di chi partecipa a questo gioco di società. In particolare ho idea che sia efficace per i populisti e controproducente per la “sinistra”.

Cominciamo col dire cos’è la vergogna. È il senso di turbamento e avvilimento che deriva dalla presa di coscienza di un proprio errore, di un comportamento riconosciuto come sbagliato da altri. Primo punto: gli altri sono necessari. Da soli non ci si vergogna. Gli altri sono contrariati, offesi, delusi quando sono persone che conosciamo e frequentiamo, come amici, colleghi, familiari. Ma se sono una massa di persone, come succede sui social network, generalmente sono indignati. La vergogna è il controcampo dell’indignazione: l’interlocutore ideale della massa degli offesi e dei costernati è qualcuno che si prevede stia per vergognarsi. I giustizieri della rete (So you’ve been publicly shamed) di Jon Ronson spiega come nel contesto dei social network non sia effettivamente necessario né risolutivo ammettere l’errore, chiedere scusa e vergognarsi se si è fatto qualcosa di “inaccettabile”. La folla degli indignati non si placherà mai, se non quando riconoscerà che non c’è margine, che il soggetto non si vergogna di nulla, che rivendica quello che ha fatto ed è impermeabile ai buuu. È il caso di Max Mosley, dirigente sportivo britannico che una decina di anni fa fu al centro di uno scandalo: venne pubblicato il video di un gioco sadomasochistico tra Mosley e alcune prostitute nel ruolo di dominatrici vestite da soldatesse. Non solo Mosley fece causa a News of the World per aver descritto come nazista l’abbigliamento della donne, che era solo militare e col Terzo Reich non aveva niente a che fare, ma non si vergognò mai di quello che aveva fatto. Gli indignati, scornati, si disindignarono presto e si concentrarono su altro. (News of the World sparì poco dopo dalla circolazione per pratiche decisamente più discutibili di due frustate di una dominatrice.) Qui c’è un punto importante: si può suggerire la vergogna a qualcuno che condivide con noi un profilo morale, una serie di valori riconosciuti. Se al contrario ciò di cui noi crediamo che Tizio si debba vergognare per lui è normale, il gioco non funziona più. Non c’è vergogna. Generalmente anzi si rivendicano le proprie azioni con ritrovato orgoglio. Che è esattamente quello che fece Max Mosley, dichiarando di amare il sadomasochismo e frequentare club privati per appassionati di giochi di ruolo erotici da decenni, liberamente e senza fare del male a nessuno.

Da questo si evince che quando in politica si dice “Vergogna!” a un avversario, è quasi automatico che di vergogna non ce ne sarà nemmeno una virgola. Quello che per uno è un atto disumano, per un altro è giusto. Quindi quest’ultimo non solo non si vergogna ma – appunto – rivendica. Pensiamo a quante volte ci è successo che una persona sconosciuta, con cui non abbiamo nessun legame affettivo, che magari non ci sta nemmeno simpatica, ci abbia chiesto con veemenza davanti a tutti di vergognarci, ottenendo effettivamente il risultato di farci vergognare. Non succede mai. Non è mai successo. Infatti non succede mai e non è mai successo che un avversario dicesse a Salvini o a Renzi di vergognarsi, e che Renzi o Salvini si dicessero dispiaciuti o chiedessero scusa. A noi come a loro non viene da vergognarci così, a comando. E allora come mai così tanta gente continua a dire “Vergogna!”? Il motivo ovviamente risiede nella platea, nell’uditorio di seguaci che leggono l’invettiva, e dalla pace del loro telefono approfittano dell’occasione per sentirsi persone rette, inossidabili, salde nei propri valori. E allora tutti mettono cuoricini, tutti condividono, tutti si riconoscono con gioia nel ruolo di membri del consiglio degli ulema che intimano la vergogna al cattivo.

La voglia di sentirsi moralmente superiori con un gesto così immediato è superiore all’oggetto della questione, basta in sé a dare soddisfazione a tutti. E la vergogna giustamente non c’entra più: “Quello fa talmente schifo che non si vergogna nemmeno!”

L’attuale maggioranza di governo è costituita da due partiti che hanno sempre fatto dell’indignazione un proprio strumento di comunicazione politica. I manifesti con la Lombardia gallina dalle uova d’oro e il sud che se le frega risalgono agli anni ’80. Il blog di Beppe Grillo è stato capace di indignarsi di qualsiasi cosa, dai vaccini alle biowashball. Generalmente anche la comunicazione del governo e di chi come il ministro degli interni usa i social network con efficacia innegabile, è improntata all’orgoglio di qualsiasi gesto, al non riconoscimento di critiche e critici di sorta. Chiedere loro di vergognarsi sposta la questione dal piano politico di ciò che si fa e si dovrebbe fare, al piano etico della morale, di ciò che è decente o indecente, accettabile o – appunto – vergognoso. Se davvero l’opposizione vuole riconquistare consensi, dovrebbe tenersi lontana dal piano della morale e parlare di politica, dedicandosi con pragmatismo agli atti del governo in sé, chiedendo conto di quello che il governo fa, di come usa i soldi dei contribuenti, delle scelte e delle prospettive. Misurare il riverberarsi delle azioni di governo sulla morale collettiva e sulla coscienza dei singoli è una cosa da filosofi o da preti, non da opposizione.

Si arriva qui alla questione centrale: quanto la sinistra, l’opposizione, voglia essere un gruppo di politici migliori che danno spazio a valori e pratiche più giuste, democratiche ed efficaci per i bisogni dei cittadini, e quanto invece desideri ribadire la propria statura morale. La storia politica del nostro paese ha dimostrato negli ultimi decenni che gli italiani non hanno grande interesse per la moralità. Si comportano spesso da moralisti, ma poi non gliene frega molto. E i social network sono delle centrifughe che sparano questo fenomeno nello spazio siderale. Sì, quando è il caso gli italiani cliccano, mettono il cuoricino, ma poi sono così disabituati al concetto che non gli danno questo grande peso. Negli ultimi tre mesi Asia Argento è passata da essere la peggiore sgualdrina di twitter a ridiventare una rockstar assoluta. Bene per lei che se lo merita, ma nessuno nel frattempo ha avuto l’impressione di essere stato anche solo un po’ incoerente. Ne Il crisantemo e la spada l’antropologa americana Ruth Benedict parla di civiltà della colpa e della vergogna. La distinzione è più sfumata di quello che si possa pensare, ma come sempre ci sono dei casi in cui si applica con grande facilità. Per esempio è chiaro che paesi come il Giappone (soggetto del libro) e il Regno Unito sono più improntati alla vergogna che alla colpa: quello che pensano i miei concittadini di me è importante, mi rende fiero di me o mi mortifica. Paesi come l’Italia in genere rispondono più alla colpa, anche perché per secoli la morale è stata stabilita dalla chiesa cattolica apostolica romana, che riconosce nella colpa un pilastro della propria teoria e pratica religiosa. Se si fa qualcosa di “sbagliato”, da noi la questione si risolve tradizionalmente in confessionale, mettendo il tutto nelle mani del prete che identificherà l’errore, comminerà una penitenza, cercherà nel soggetto il pentimento. In Giappone, così come nei paesi cristiani di liturgia protestante, è alla comunità che si risponde: è la comunità a prendere atto delle azioni dei suoi membri, ad assorbirle, giudicarle, capirle. Presso di noi, invece, che siamo abbastanza chiaramente una civiltà della colpa, la grande esclusa è sempre la responsabilità. C’è una naturale propensione a evitare la responsabilità, una condizione che ha a che fare con un mondo di valori laici e collettivi, e spostare tutto sul piano morale, intimo, legato a ciò che alberga nel profondo dell’animo di ogni sottosegretario, e non a quello che ha fatto, come previsto dal suo ruolo.

Se l’opposizione non capisce che la statura morale non è la prima preoccupazione dei cittadini, continuerà a regalare assist di indignazione a chi col ditino alzato ci è nato e cresciuto. Quello che i nostri politici pensano come uomini, donne, mariti, mogli, padri e madri è rilevante solo per i loro cari, i loro amici, i giornalisti che li scambiano per attori del cinema. Ma ai cittadini dovrebbe interessare sempre e solo quello che fanno. E di quello dovremmo chiedergli conto.

Matteo Bordone

Matteo Bordone è nato a Varese negli anni della crisi petrolifera. Vive a Milano con due gatti e molti ciclidi. Lavora da anni a Radio2 Rai e a volte in televisione. Scrive in alcuni posti, tra cui questo, di cultura popolare, tecnologia, videogiochi, musica e cinema.