La Tunisia verso le elezioni

È stato un Ferragosto particolarmente caldo quest’anno in Tunisia. Il digiuno del Ramadan non ha placato l’energia
della folla tornata a più riprese in piazza a protestare. Il malcontento è stato espresso in particolare dall’ordine degli avvocati e dei magistrati, da quelli che chiedono un corso più celere per la riforma del sistema giudiziario e, allo stesso tempo, giustizia esemplare nei confronti di esponenti dell’ancien régime. In effetti, dietro al processo che ha assolto alcuni ex ministri di Ben Ali implicati in scandali finanziari o dietro al fatto che l’ex ministra Saida Agrebi abbia potuto eludere la giustizia riparando all’estero vi è ben altro: la paura della restaurazione.

In questo mese d’agosto, inoltre, non sono mancati gli scioperi e le proteste popolari nel resto del paese. Nel centro-ovest: a Gafsa, a Kasserine e a Sidi Bouzid, dove tutto cominciò il 17 dicembre 2010 quando il giovane Mohammed Bouzizi si immolò per protestare contro la polizia che lo redarguiva pesantemente mentre requisiva il suo merchandise ambulante. È in queste regioni che risiede la maggior parte della popolazione più povera, che chiede lavoro, una più equa redistribuzione, assistenza e giustizia sociale.

Simili manifestazioni si registrano anche sul versante est: a Sfax, importante e popolosa città operaia. E a sud: a Tatatouine, dove maggiormente si vive l’impatto della crisi libica. Tutto, infine, trova eco a Tunisi, nella piazza della Kasbah, con tanti giovani diplomati che reclamano un futuro migliore a casa propria e che non hanno intenzione di buttarsi in mare in balia di onde altrettanto incerte sull’altra sponda del Mediterraneo.

Nelle ultime settimane, è stato evidente il moltiplicarsi di un sentimento di disincanto per la rivoluzione: un sentimento spesso prevalente rispetto alle speranze di cambiamento nutrite dalla popolazione e promesso dagli oltre cento partiti politici già registrati, ora in procinto di sottoporre i candidati per le elezioni dell’Assemblea Costituente in programma il 23 ottobre. La scadenza per la presentazione delle liste è il 7 settembre, ma sembra probabile lo slittamento di qualche giorno sia per la coincidenza con le festività sacre dell’Aid che per l’impreparazione di molti attori politici in riferimento ai requisiti richiesti dall’ISIE (Instance Superieure Electorale Independante). Intanto, si assiste alla formazione di coalizioni e cartelli elettorali, al proliferare di candidati indipendenti, all’annuncio di liste a base regionale che spesso servono a camuffare la corsa di vecchi quadri del RCD, il partito dissolto di ZABA. E’ così che oramai ci si riferisce, soprattutto dal popolo on-line, a Zinedine el-Abidine Ben Ali.

Il problema, se di problema si tratta, è che la gente ha tanta voglia e troppa fretta di cambiare, mentre i tempi del cambiamento e della transizione democratica richiedono una grande dose di pazienza, fiducia e perseveranza che, tutto sommato, non è dato pretendere da chi, in prima persona, ha pagato lo zelo del regime. Tutt’al più in un contesto in cui non esiste, dal principio degli eventi, una leadership riconosciuta né tanto meno qualcuno che a ciò possa aspirare. Tutti sottolineano che la rivoluzione è di tutti, sebbene sia evidente il vantaggio di prossimità rispetto al radicamento tra la popolazione di cui oggi gode Ennhada, il partito islamista moderato tornato alla legalità e da tutti indicato come primo partito. Il 14 gennaio, quando in migliaia affollavano la piazza della Kasbah, nessuno ha osato prendere la parola per aizzare la folla. Slogan unico e gridato all’unisono da liberali, comunisti, centristi, desturiani ed islamisti: DEGAGE.

Dégage, una parola che ha contagiato le piazze di altri paesi arabi, facendo capitolare poche settimane dopo Mubarak in Egitto. In questi giorni, lo stesso slogan è ricomparso a Dakar contro il Presidente ultraottantenne Wade che vorrebbe rinnovato il suo mandato e imporre sulla scena il figlio già bocciato alle elezioni per governatore di Dakar. In altre capitali dell’Africa più nera la popolazione aumenta in vigore e coraggio per protestare contro despoti al potere da decenni.

Ma se una rivoluzione senza guida è una rivoluzione solo di popolo, essa porta con sé anche delle insidie e può facilitare il ritorno in scena di vecchi potentati, camuffati sotto altre spoglie e altri nomi. Potrebbe anche questo essere il caso della Tunisia di oggi, aspirante Singapore del Mediterraneo come la definisce qualche ottimista, ma in verità un paese indebitato fino al collo verso gli istituti di credito internazionali e dove non basta un tenore di vita al di sopra della media aficana per illudersi che tutto vada bene. C’è chi obietta che il regime di ZABA non è stato certamente tra i più crudeli, ma anzi, sotto di esso il paese ha conosciuto sviluppo economico, sociale e infrastrutturale con il suo tallone d’Achille (solo!) nella repressione dei diritti civili e politici, con ogni forma di opposizione costretta all’illegalità. Insomma, una sorta di dispotismo illuminato come lo chiameremmo in Europa.

La questione della Tunisia contemporanea non può essere limitata ai ventitré anni di Ben Ali, ma affonda le sue radici più lontano. Nel 1956, anno dell’indipendenza, Bourguiba andò al potere per restarci fino a quando fu dichiarato ‘malato di mente’ da una commissione di medici su incarico dell’allora ministro dell’interno (Ben Ali), sostenuto da influenti generali. Era il 1987 e si parlò di rivoluzione dei gelsomini. Ci vollero pochi anni per capire che non vi era alcuna intenzione di liberalizzare lo spazio politico e aprire al pluralismo. Ma non si possono certo frettolosamente assimilare i quarantuno anni di Bourguiba con Ben Ali, come ci fa presente l’ottantaseienne Ahmed Mestiri, uscito dal silenzio il 16 gennaio del 2011 per esprimere il suo sostegno alla rivoluzione. Mestiri, che di Bourguiba fu il primo ministro della giustizia, poi delle finanze e commercio, ambasciatore a Mosca, Praga e Varsavia, e ancora ministro della difesa prima di dissociarsene temporaneamente nel 1968 e definitivamente nel 1978, divenendo il leader dell’opposizione democratica, evidenzia che mai accettò di criticare pubblicamente Bourguiba come più volte gli fu chiesto da Ben Ali e la sua cricca. Il loro intento era puramente strumentale e non rendeva giustizia a tutto quanto di buono abbia fatto Bourguiba per la Tunisia contemporanea. Altro è la condanna della deriva autoritaria di quel sistema, in cui l’esercizio del potere si fonda sul carisma personale e che molto spesso, se, protratto per lungo tempo, sfocia in forme di vera e propria paranoia e degenera nella repressione del popolo che reclama ‘pane’ (1983-84) e dignità (1978).

Bourguiba, il padre della patria, brillante avvocato, più volte esiliato e perseguitato dai coloni francesi prima dell’indipendenza del 1956, al pari di Senghor per il Senegal, Houphuet-Boigny per la Costa d’Avorio, Nyerere per la Tanzania, Kenyatta per il Kenya, ha anche il merito di aver gettato le basi di una Tunisia aperta e moderna, che vanta tanti primati in campo riformista in un contesto regionale spesso oscurantista. Si pensi, su tutti, al livello di libertà e diritti riconosciuto alle donne già nel 1956.

Manca poco alle elezioni del 23 ottobre, quando l’esito delle urne ci dirà di più sul futuro di questo paese cerniera tra il Maghreb più tradizionale costituito da Algeria e Marocco, la vicina Libia da ricostruire, una regione geopolitica in grande tumulto, come è il caso dell’Egitto, della Siria e della più annosa delle questioni che riguarda israeliani e palestinesi.

La fase di registrazione degli elettori è terminata il 14 agosto con circa il 55% dei tunisini che ha aggiornato il proprio status nelle liste elettorali, senza restrizioni per gli altri cittadini già iscritti nelle liste. I tunisini residenti all’estero, per la prima volta, saranno chiamati alle urne per eleggere 19 (di cui 3 in Italia) dei 218 rappresentanti nella futura assemblea costituente. Ora, tra un tecnicismo elettorale e un altro, una società civile che spinge forte per avere un ruolo importante in questo processo di transizione, la parola passa alla politica e ai partiti politici – sebbene sia forte il distacco tra essi e la gente comune – per un’elezione che attira l’interesse di tutta la comunità internazionale per gli effetti che avrà, nuovamente, su tutte le altre aspiranti democrazie del mondo arabo e i nuovi equilibri regionali.

Michele Camerota

Michele Camerota è di Scauri (Lt), laurea in scienze politiche, master in diritti umani, viaggia e lavora in quattro continenti come osservatore elettorale e affini. Saldamente legato alle sue origini.