La terza via

È uscito oggi sul Foglio questo articolo scritto da me e Carlo Calenda (Vice Ministro dello Sviluppo Economico).

Al direttore – Due articoli apparsi ieri sul vostro giornale (“La crisi dei cent’anni” e “Il Ritorno dello Stato”) offrono, finalmente anche ai lettori italiani la possibilità di documentarsi su due tesi che si fanno largo non solo nel dibattito tra economisti: primo, siamo condannati alla permanente stagnazione; secondo, è bene che Stato torni rapidamente ad essere motore di sviluppo intervenendo direttamente nell’economia e sostituendosi in parte al mercato e all’impresa privata.

La pensiamo in maniera diversa: la nostra tesi è che le economie occidentali sarebbero state condannate alla stagnazione se non avessero messo in piedi, a partire dagli anni novanta, quel gigantesco progetto di allargamento del mercato che va sotto il nome di globalizzazione. Riteniamo che la prima fase di questo processo, che si va concludendo, abbia sostanzialmente rappresentato un investimento costoso ma necessario per l’occidente. Lo spostamento di produzioni e capitali verso le economie emergenti ha determinato un relativo impoverimento dei nostri paesi ma ha costruito la premessa per una crescita consistente e duratura crescita della domanda mondiale, che è ormai diventata attuale. Se non avessimo fatto questo investimento, che incidentalmente ha finora tirato fuori dalla povertà oltre un miliardo di persone, i paesi sviluppati avrebbero potuto crescere solo in presenza di salti tecnologici capaci di ricreare domanda, in economie sostanzialmente sature; salti tecnologici che per loro natura non sono programmabili (anche se possono essere favoriti dall’industria para-pubblica) e non necessariamente avvengono. Paradossalmente, le bolle speculative degli ultimi venti anni, finanziarie e tecnologiche, hanno avuto anche l’effetto di alleviare i costi di questa prima fase della globalizzazione. In questo senso ci convince quanto sostiene Wolf, “gli eccessi finanziari erano risposte a debolezze strutturali preesistenti”.

E’ fondamentale però riconoscere che oggi incominciamo a incassare un dividendo consistente dopo anni di sacrifici. Il passaggio, lento ma progressivo, delle economie “emerse” dalla produzione al consumo e la contestuale diminuzione del differenziale dei costi di produzione tra occidente e oriente stanno prefigurando un  riequilibrio dei vantaggi. Prendendo in prestito la fortunata espressione di Jean Pisani-Ferri, la prima fase della globalizzazione si è basata sull’interazione tra consumatori americani e produttori cinesi, ma la seconda sarà caratterizzata da consumatori e produttori di tutto il mondo. Una nuova manifattura sta tornando in occidente – sono ormai numerose anche le ri-localizzazioni – per servire consumatori sparsi in centinaia di paesi. E’ una manifattura che si nutre di know-how locale, che contribuirà all’occupazione soprattutto per l’indotto che crea nel settore dei servizi, ma che si candida a essere spina dorsale della crescita economica in occidente nei prossimi decenni.

E’ bene tener presente tuttavia che questo processo ha dei nemici, tra tutti il protezionismo e il populismo. Le economie emerse stanno aumentando le protezioni (vengono introdotte 400 nuove barriere non tariffarie ogni anno) per trattenere i vantaggi all’interno dei propri confini; allo stesso tempo nei paesi maturi i valori del mercato e della concorrenza vengono ripudiati da classi dirigenti che inseguono il consenso di cittadini spaventati da un cambiamento di cui si sentono soprattutto vittime. Come osserva correttamente Cingolani protezionismo e statalismo sono strettamente collegati. Se è lo Stato e non l’impresa privata a confrontarsi nell’arena dell’economia internazionale è inevitabile che la chiusura delle frontiere alle merci dei paesi concorrenti diventi parte della strategia del Governo imprenditore. Questa tesi è confermata dall’attitudine decisamente più protezionistica dei paesi dove l’impresa è ancora in mano allo Stato. Non fosse altro che per questa ragione, a cui a nostro avviso si aggiunge l’inefficienza del modello dirigista (e, a fortiori, del modello statalista), dovremmo respingere con fermezza l’idea che la risposta alla stagnazione possa venire da nuove IRI, che finirebbe con l’importare anche da noi le stesse, pericolose, pulsioni protezioniste. Piuttosto, se la stagnazione è figlia di una fase di transizione dell’economia mondiale verso un modello che ci avvantaggia, dovremmo partire da questa visione per confutare le tesi di chi rifiuta le ragioni del mercato. A nostro avviso questa tesi vale soprattutto per l’Italia.

Guardando sconsolato a casa nostra, Francesco Giavazzi nel suo ultimo intervento sulle pagine Corriere della Sera, lamenta i passi indietro che la libertà economica ha compiuto nel nostro Paese, a causa degli interessi particolari che si oppongono al mercato e che trovano sostegno nei tantissimi cittadini che si illudono di potersi così proteggere dalla globalizzazione.

Riteniamo che questa preoccupazione – ovvero la necessità di proteggersi da un futuro necessariamente cupo e fosco – sia, più delle resistenze di corporazioni la cui autorevolezza è declinante, il centro del problema. Se non si affermerà con forza un racconto diverso, più realistico e più ottimista rispetto a quello a cui siamo abituati, sulle cause e i meriti dell’internazionalizzazione delle economie mondiali, le ragioni del cambiamento e del mercato saranno sempre sconfitte. Complice una classe dirigente, non solo politica, alla perpetua ricerca di alibi, si è radicata l’idea che la globalizzazione è per l’Italia una maledizione che ci condanna al declino. E se il futuro è un “rischio mortale” i cittadini comprensibilmente rifiutano di mettere in gioco i loro interessi particolari in vista di un progetto di ampio respiro, se non altro perché quella stessa narrazione condanna qualsiasi progetto all’inevitabile fallimento.

Occorre dunque affermare con chiarezza che la globalizzazione non è della Cina per la Cina, ma il “nostro” progetto. Proprio l’Italia è uno dei paesi tra i promotori della globalizzazione che più può beneficiare da questa sua seconda fase. La nostra manifattura, pur sistematicamente trascurata dalle politiche della seconda Repubblica, è stata ferita ma non sconfitta e trova proprio nell’internazionalizzazione la sua via di salvezza. Raramente rammentiamo che negli ultimi 18 mesi il nostro export è cresciuto più di quello francese e di quello tedesco, con tassi particolarmente significativi nei paesi extra UE nonostante un Euro fortissimo (il che sconfigge un altro alibi ricorrente, quello delle svalutazioni che sarebbero necessarie alla nostra industria per competere). I francesi comprano aziende in Italia perché hanno perso gran parte della loro base industriale in alcuni settori (la moda tra tutti). Allo stesso tempo la cultura italiana è una calamita per i turisti stranieri e quest’anno abbiamo segnato un record negli arrivi proprio dai paesi extra europei (ovvero: una parte del dividendo che deriva dalla nuova classe media globale). Bisogna sottolineare che questi risultati a cui accenniamo appena sono stati raggiunti senza aver messo in campo politiche o risorse particolarmente significative. Dunque le riforme vanno fatte, non perché obbligati dall’Europa o dall’FMI ma perché c’è uno straordinario percorso di crescita a portata di mano. Spetta soprattutto alla politica riuscire a spiegarlo ai cittadini.

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_