La realtà è la migliore delle serie tv possibili

La serie tv più bella che vi capiterà di vedere quest’anno è in realtà una storia vera, fatta di persone vere, che parla di una vicenda vera, legata a drammi veri. Making a murderer è un documentario in dieci puntate, tutte già disponibili su Netflix, e racconta la allucinante vicenda giudiziaria di Steven Avery, povero disgraziato o efferato omicida del Wisconsin, a seconda di come la penserete alla fine. Accusato nel 1985 di stupro, Avery viene condannato e spedito in carcere, pur dichiarandosi sempre non colpevole. Nel 2003, grazie alla prova del dna finalmente disponibile, viene scagionato dall’accusa di stupro e rilasciato, dopo 18 anni trascorsi in prigione da innocente. Sì, avete letto bene: 18 anni in prigione da innocente. Il suo caso diventa così famoso e emblematico del cattivo funzionamento del sistema giudiziario, che a lui viene dedicata una nuova legge, la Avery Bill, volta a proteggere gli innocenti sbattuti in prigione senza aver commesso il fatto.

Quella che è già di per sé una storia degna di essere raccontata è in realtà solo l’antefatto di Making a murderer. La serie tv comincia infatti con Avery che, finalmente rilasciato di prigione, decide di denunciare quelli che lo hanno incarcerato ingiustamente ovvero la contea di Manitowoc, lo sceriffo dell’epoca e il procuratore distrettuale. Due giorni prima di ricevere quello che gli spetterebbe per risarcimento ovvero 36 milioni di dollari, Avery viene incarcerato di nuovo. E l’accusa, questa volta, è di omicidio. La vittima si chiama Teresa Halbach, una giovane fotografa che il 31 ottobre si reca presso la proprietà della famiglia di Avery per fotografare una automobile per conto della rivista Auto Trade Magazine. Da quel giorno nessuno la vede più. La scomparsa viene denunciata il 3 novembre. L’11 Avery viene arrestato. Il dubbio è: è stato davvero lui o è stato incastrato da quelli che lo avevano messo già in carcere e che ora si vogliono vendicare per aver perso la causa?

Making a murderer è il racconto del processo che lo vede imputato. Ma è anche molto di più. È law drama mischiato a horror mischiato a buoni contro cattivi come nei western mischiato a ricchi contro poveri come nelle telenovele. È Perry Mason ed è anche Il buio oltre la siepe. Narrativamente, è una delle cose più perfette che siano passate in televisione. Emotivamente, è in grado di toccare tutte le emozioni: rabbia, compassione, paura, sconforto, tristezza. Soprattutto, è una storia terribilmente vera. Ed è qui la grande novità: da quando è stata resa disponibile su Netflix, la serie ha generato un seguito e un culto fatto di teorie e interminabili discussioni su Reddit riservato fino ad ora solo alle grandi fiction. Se a questo si mette insieme il successo di The jinx – altro documentario a puntate molto simile – non si può che concludere che a volte la realtà è la migliore fiction possibile. Certo, molto fanno i personaggi. Neanche il più diabolico degli sceneggiatori avrebbe potuto inventare uno psicotico accattivante come il protagonista, il miliardario Robert Durst. Forse giusto Hanibal Lecter, e infatti ancora ce lo ricordiamo. In Making a murderer c’è il cattivo che forse è vittima e che forse è mostro (e please, apprezzate la fatica immane che sto facendo per non spoilerare neanche un briciolo), e ci sono due eroi così eroi – gli avvocati difensori di Avery, Dean Strang e Jerome Buting – che in confronto Atticus Finch sembra un studente al primo anno di legge. Vi dico solo che intorno al sesto episodio, in piena dipendenza, ho cominciato a sperare in uno spin off centrato su i due avvocati con twist da commedia rosa nel quale Buting si innamora della reporter carina che ogni tanto viene inquadrata. Derive romantiche a parte, non c’è dubbio che parte del successo della serie sia dovuta a loro due: in fondo siamo o non siamo una generazione cresciuta con le repliche di Perry Mason? 

Simona Siri

Vive a New York con un marito e un cane. Fa la giornalista e ha scritto due libri: Lamento di una maggiorata (Tea, 2012) e Vogliamo la favola (Tea, 2013). Segue la politica americana, il cinema e le serie tv. Ama molto l'Italia e gli italiani, ma l'ha capito solo quando si è trasferita negli Usa.