La politica agricola, spiegata con il calcio

Il tema di questa intervista non è l’agricoltura, perlomeno non in un senso stretto, ma l’economia agricola e le conseguenti politiche (agricole e non). Ormai, l’abbiamo imparato, non sono più dimensioni locali. Anzi, Massimo Troisi nel 1983 introdusse l’allora nascente fenomeno con una scenetta esemplare.

Nel film Scusate il ritardo si racconta la storia d’amore tra Vincenzo (Troisi) e Anna (Giuliana De Sio). Lui è disoccupato. Vive con la sua famiglia, pochi soldi, pochi sfizi. Meno male che c’è il vicino, un vecchio professore di matematica, solitario e brontolone. Sta sempre a casa, tranne nei fine settimana, allora va a trovare i nipoti e Vincenzo ne sfrutta (con molta delicatezza) l’appartamento. La scena: dopo l’amore Vincenzo prepara un caffè e si accorge che il professore ha ancora la macchinetta da uno. Anna ribatte: poverino, chissà come si sente solo. È solo e vuole restare solo – dice Vincenzo – perché se uno si sente solo non può avere la macchinetta da uno. Al contrario deve comprarsi la macchinetta da 12/24, così che le persone sono portate a pensare: e andiamoci a prenderci un caffè a casa del professore.

Sì, certo, il vecchio professore di Troisi, rappresentava, allora, una vecchia idea di Napoli. Ma introduce dei concetti importanti: il caffè non lo produciamo da soli e nemmeno la macchinetta. Ogni prodotto, vuoi per il grado di complessità tecnologica (che impone una specializzazione crescente) vuoi per una semplice questione di materie prime, ogni prodotto, dicevamo, è formato da più parti e ognuna di queste nasce in diverse regioni del mondo. Per portare il discorso nel campo agricolo, l’Italia è sì un paese importatore (usiamo per mancanza di materie prime grano canadese o neozelandese per produrre pasta) ma esportiamo verso gli Stati Uniti. La cifra è alta – 41 miliardi di dollari – e l’agroalimentare rappresenta quasi 10 per cento sulle esportazioni totali (ci dice l’ultimo report ISMEA). Abbiamo bisogno del mercato americano (e russo e tedesco). Se Trump si decidesse per il chilometro zero, che fine farebbe il nostro made in Italy?

Insomma, la Terra è piatta, per citare il libro di Thomas Friedman. Tuttavia, se da una parte è vero che è meglio commerciare che guerreggiare, non tutti quelli che comprano le Nike lottano e credono nella democrazia e nei diritti individuali. E ancora: nuovi attori spuntano sulla scena globale, l’India e la Cina, per esempio. Non bussano più garbatamente. I nuovi arrivi stanno mettendo in discussione il placido e abitudinario schema, Europa e Stati Uniti. Per farci un’idea di come sia vecchia la vecchia globalizzazione (nonostante il bisticcio) basti pensare che nel Fondo Monetario Internazionale la Cina ha solo qualche voto in più rispetto al Belgio.

Accanto ai nuovi attori ci sono problemi nuovi: approvvigionamento alimentare, per esempio, e il conseguente aumento della domanda di terra coltivabile: solo nel 2007 il valore dei terreni agricoli è aumentato del 16 per cento in Brasile, del 31 per cento in Polonia, mentre negli Stati Uniti si è registrato un incremento di valore con tassi tra il 20 e il 70 per cento negli ultimi cinque anni, secondo la posizione geografica dei terreni e la loro vocazione a una produzione più o meno intensiva (Rapporto Rabobank, 12 luglio 2012). Di approvvigionamento alimentare abbiamo parlato con Fabian Capitanio.

Ciao, chi sei?
Fabian Capitanio, docente di Economia e Politica Agraria, Dipartimento di Agraria di Portici, Università degli Studi di Napoli Federico II. Comunque, a volte chi sei dipende da chi eri…

In effetti… è una delle ipotesi deterministe, ma ci sto… Chi eri?
Fino a 21 anni facevo il calciatore professionista…

No… ruolo?
Libero… ma non da impegni.

E poi?
Poi mi iscrivo alla Facoltà di Economia per ritardare il servizio di leva, fondamentalmente. Invece le vicissitudini che solo la vita riserva fanno in modo, inaspettatamente, che in quella facoltà incrociassi per puro destino un maestro fantastico: Stefano Fenoaltea.

Che cambia il tuo gioco, diciamo così…
Cambia la mia vita e mi fa entusiasmare alla Politica Economica, alla Microeconomia, alla Storia del Pensiero economico. Poi finisco a Portici. Anche lì c’entra un grande maestro.

Rossi Doria…
Sì, Manlio Rossi Doria, che ebbe questa idea geniale e lungimirante di fondare un Centro di Ricerca in Economia e Politica Agraria che contemplasse, per l’analisi delle problematiche di economia agraria e lo sviluppo delle aree rurali, lo scambio culturale e l’interazione stretta tra sociologi, economisti generali, statistici ed economisti agrari.

La cotica erbosa del calcio ha delle assonanze con l’agricoltura, facciamo così: l’agricoltura raccontata attraverso il calcio?
Vai, ci sto.

Ok, scegliamoci una partita da giocare…
La sicurezza alimentare, intesa come approvvigionamento.

È una partita importante? Perché?
Dall’immediato dopoguerra, un lungo periodo di prezzi stagnanti e declinanti ha caratterizzato la vita dei mercati agricoli, intervallato solo da una fiammata negli anni settanta, in concomitanza dello shock petrolifero che seguì l’embargo deciso dai paesi Opec. A partire dalla metà degli anni novanta è iniziata un’inversione di tendenza, diventata eclatante con i picchi delle quotazioni agricole del 2007-2008 e del 2010-2011. In altre parole, la crescita della produttività dei fattori, grazie allo sviluppo tecnico e all’innovazione, ha generato una crescita enorme dell’offerta agricola e, quindi, prezzi declinanti. I picchi dei prezzi appena citati segnano il punto di rottura. È l’inizio di una nuova era: l’era della scarsità. Vedremo poi di cosa.

Ok, parliamo di regole di base, chi sono in questa partita i players?
Il mercato dei futures vede in sostanza due grandi categorie di partecipanti: coloro che vogliono coprirsi dai rischi di crollo dei prezzi, generalmente agricoltori, detti hedger, e gli speculatori.

Gli speculatori giocano sporco?
La verità? Non era un problema di speculatori e di speculazione!

Cioè?
Chi ha un minimo di dimestichezza con il funzionamento dei mercati finanziari sa qual è il ruolo degli speculatori. La premessa, il nostro schema di gioco… è che stiamo nel campo della cosiddetta «finanza derivata», ossia in mercati che scambiano titoli finanziari il cui valore è legato al prezzo di un determinato bene reale, detto «sottostante».

Aspe’. È vero che presi un buon voto all’esame di economia, ma sono passati parecchi anni, spiega…
Nel nostro caso il titolo ha per sottostante una commodity agricola, come il grano o il caffè, e il suo valore aumenta al crescere del prezzo di questi prodotti sul mercato reale, detto in gergo «mercato spot». Tra i diversi strumenti di finanza derivata forse i più citati sono i futures. Si tratta di un contratto attraverso il quale un venditore e un acquirente concordano il prezzo e la data di consegna di una merce, secondo standard prestabiliti. Questo significa che la consegna è posticipata nel tempo e che al momento convenuto per lo scambio il prezzo di mercato potrà essere diverso da quello pattuito, e una delle due parti potrà avere un guadagno da questa differenza.

Ok, come se il punteggio della partita potesse cambiare dopo il fischio finale?
In realtà non proprio; è una sorta di scommessa che però, viene utilizzata per garantirsi dal rischio di prezzo.

Ok, come giocano gli agricoltori?
I primi si riparano da possibili cali dei prezzi fissandoli in anticipo o acquisendo contratti le cui quotazioni hanno un andamento presumibilmente contrario rispetto a quelle del bene fisicamente posseduto. Soprattutto nei periodi di marcata volatilità, i derivati sono un fondamentale strumento di gestione del rischio per gli agricoltori. Immagina un grande produttore di grano. Se acquista un contratto a termine, di vendita, si garantisce da cali futuri di prezzo; rimane però, per lo stesso, il rischio di non avere la merce da consegnare. Ma questo è altro discorso.

I secondi?
Quelli scommettono, invece, su possibili rialzi. In realtà, alla scadenza del contratto, raramente avviene la consegna delle merci, sostituita dalla compensazione in denaro della differenza tra il prezzo di mercato del bene alla scadenza pattuita (prezzo spot) e quello stabilito dalle parti al momento della stipula. Anche se nella pratica diventa spesso molto complesso operare una distinzione netta tra hedger e speculatori, in generale le attività messe in piedi dai primi vengono definite commerciali, mentre quelle dei secondi non commerciali. Nel gioco, sono ambedue indispensabili per far funzionare il mercato dei titoli derivati, che senza l’apporto degli speculatori non avrebbe liquidità sufficiente.

Partite di questo tipo sono molto discusse…
La critica alla finanziarizzazione dell’agricoltura a partire dal 2007, scala i vertici del dibattito pubblico. Si parla di volatilità dei prezzi e food security.

Siamo prima della crisi, no?
Beh, sì, la scalata è favorita indubbiamente dal diffuso sentimento di condanna verso i mercati finanziari che segue il fallimento di Lehman Brothers e altri colossi, che mediaticamente ha rappresentato il punto d’innesco della lunga e non ancora terminata stagione della recessione economica globale.

Ok, e la partita continua?
Sì, nel senso che se ne parla ancora ma con molta meno enfasi che in passato. Come se parlassimo di un fantasma che si fa vedere solo nelle notti buie e tempestose (le fiammate dei prezzi) per poi ritirarsi e ripresentarsi a sorpresa anche dopo lunghissimi periodi.

Ma i due player ci sono ancora? Cioè, come giocano gli speculatori quando i prezzi sono stabili e non particolarmente fluttuanti?
In realtà, i mercati finanziari operano come conseguenza e non come causa delle variazioni dei prezzi.

Reagiscono al campo di gioco?
Sì, l’osservazione del livello delle scorte, degli andamenti climatici, dei prezzi del petrolio e delle reazioni commerciali guidano l’attività degli speculatori, che come tutti gli investitori operano scelte sulla base della formazione delle aspettative, scommettendo cioè sul futuro. Questa considerazione, che non esaurisce ovviamente la riflessione sul contributo della speculazione, può intanto chiarire una parte del problema.

E dimmi…
La correlazione tra prezzi è investimenti finanziari non è pilotata dalle speculazioni, ma al contrario sono le variazioni dei prezzi ad attrarre quest’ultima. Sono infatti il livello delle scorte, gli eventi climatici, i prezzi dell’energia e, negli ultimi anni, le reazioni commerciali ad avere il maggior peso specifico sui corsi delle quotazioni.

Scusa, ma il gioco degli speculatori non pregiudica anche le partire future?
Diciamo che restano dei dubbi (non risolti) sull’effetto che le speculazioni finanziarie producono ad ulteriore esacerbazione delle fiammate. Le poche evidenze che abbiamo ci dicono tuttavia che gli effetti sono di brevissimo periodo.

Quindi il problema sta nella partita stessa, cioè l’essenza stessa dei mercati finanziari?
Sì, diciamo che i mercati finanziari agricoli nascono con un preciso obiettivo: fornire agli agricoltori proprio coperture contro i rischi di prezzo. Al netto delle fiammate degli ultimi anni, sono da sempre stati considerati uno strumento di gestione del rischio fondamentale per gli agricoltori.

Ok, ora che non giochi più, sei un allenatore, ecco: che strumenti di lettura useresti per capire la partita?
Il problema è sia nell’inadeguatezza nell’analisi sia nel fallimento del ruolo accademico, per come lo intendo io.

Spiega.
Gli speculatori hanno tratto vantaggio dagli elementi in loro possesso; elementi che erano nella disponibilità anche degli economisti, dei politici ecc. Perché i primi hanno letto bene i segnali? Perché la corsa alla terra è stata intuita solo dagli speculatori?

Perché?
Mi torna in mente ciò che diceva Fenoaltea quando analizzava il fallimento economico post-unitario con la nascita del divario nord-sud; le interpretazioni dominanti dello sviluppo dell’Italia post-unitaria identificavano senz’altro lo sviluppo economico con lo sviluppo industriale.

Sì, sono del sud, è un dibattito ancora vivo.
Allora ricordi che la stessa industrializzazione veniva a sua volta interpretata all’interno di uno schema a stadi di sviluppo…

Prima i prerequisiti…
Esatto, il progresso era legato alla creazione dei prerequisiti, all’aumento cioè delle capacità del settore produttivo, all’aumento dell’offerta.

Il nord vinceva sul sud perché?
Il successo del nord e l’insuccesso del sud sono legati alle risorse naturali attraverso la tecnologia intensiva appunto in risorse naturali, della prima rivoluzione industriale, quella della siderurgia e dell’industria tessile. Ma nello scorcio dell’Ottocento si sviluppa pure la tecnologia della seconda rivoluzione industriale, quella della chimica organica e del materiale elettrico. Tale tecnologia non richiede ingenti consumi energetici, si presta come tale anche ai paesi come l’Italia poveri di carbone; ma è intensiva in capitale umano, attecchisce in Germania grazie all’ottima, diffusa educazione tecnica. In Italia questa manca: il Politecnico di Milano rimane un’eccezione, le scuole e le borse di studio che possono aprirne le porte anche ai giovani brillanti delle famiglie modeste sono poche.

Un problema culturale?
Se lo Stato avesse sviluppato a dovere l’educazione tecnica, lo sviluppo italiano sarebbe stato più moderno, più rapido. Il mancato sviluppo ha portato alla debolezza anche militare, alla frustrazione delle velleità di grande potenza, all’onta del Fascismo, alla tragedia dell’alleanza cartaginese: è questo il fallimento, nazionale, dell’Italia post-unitaria. Se l’Italia post-unitaria avesse cavalcato la seconda rivoluzione industriale, invece di ripercorrere la prima, lo sviluppo sarebbe stato non solo più vigoroso, ma meno legato alle risorse naturali, idriche, delle prealpi. Sarebbe stato legato, piuttosto, alle risorse umane; e con una buona educazione tecnica diffusa a tutti i livelli e in tutto il territorio, lo stesso sviluppo sarebbe stato più equilibrato. Il fallimento dello sviluppo meridionale, il fallimento che ha generato il divario Nord-Sud, è il fallimento dello sviluppo nazionale.

Aspe’, da una parte concordo, dall’altra mi sto perdendo: cosa c’entra con la food security e gli speculatori il divario post-unitario?
C’entra…

Cioè?
Perché troppo spesso, durante la storia, interessi nascosti e di parte, miopia, scarsa capacità di analisi, visione religiosa, hanno inficiato pesantemente lo sviluppo economico e sociale dei paesi. Gli accademici hanno dimenticato troppo spesso il loro ruolo, anzi, hanno abdicato al loro ruolo.

Vuoi dire che mancano delle indicazioni culturali, intendo analisi e strumenti per giocare questa partita?
Diciamo che la linea è dettata fuori dall’elite accademica; si fa fatica, purtroppo, a capire se questo è un bene o un male. Quello che voglio dire è che oggi necessariamente la complessità delle sfide che ci attendono (o che ci hanno già sconfitto) necessitano di interazione tra diverse figure e specializzazioni. È impensabile rispondere con la sintesi alla complessità; la vita delle persone, degli esseri umani è caratterizzata dalle scelte dell’elite politica e dalla capacità di analisi dell’elite accademica. Se la qualità di queste due categorie, non le sole, è bassa, il costo è pesantissimo.

Ok, mi fai un esempio?
Il settore primario e il commercio agricolo sono da sempre ambiti più protetti e regolati di altri, per ragioni che attengono alla necessità di assicurare l’accesso al cibo a prezzi ragionevoli ai propri cittadini. È il primo gradino della scala del benessere, la base su cui fondare la stabilità sociale e la crescita economica di un paese.

Va bene. Ma…
Ma in questi anni la suddetta prospettiva si è indebolita in molte aree del pianeta, pregiudicando il raggiungimento di uno dei primari obiettivi del millennio per lo sviluppo. La crescita e la volatilità dei prezzi delle materie prime agricole stanno ulteriormente compromettendo la già fragile situazione economica e politica di molti paesi a basso reddito. Si tratta per la maggior parte di importatori netti di derrate alimentari, che risentono in modo particolare dell’aumento dei prezzi del cibo. Il suo impatto in questi contesti mette oggi più di ieri a repentaglio l’equilibrio della bilancia commerciale degli Stati e favorisce incrementi intollerabili del costo della vita per le popolazioni (leggasi Primavere arabe).

In questo senso dici che preoccuparsi solo degli speculatori significa avere una visione parziale della partirà che è complessa?
Sì, se diamo la colpa della volatilità agli speculatori, quindi, non sbagliamo solo l’analisi; sbagliamo anche la ricetta, la cura. E questo dovrebbe essere intollerabile, dovrebbe mettere pressione sulle persone ed indurre ad evitare banalizzazioni; perché parliamo della vita di centinaia di milioni di esseri umani. L’essere umano.

Dici che non è più il centro del dibattito?
Certo, nemmeno nella sinistra. Oggi l’identità dell’uomo è identificata con cose che poco c’entrano con l’umano; conseguenza naturale è che lo stesso umano e i suoi bisogni escano dal lessico del dibattito quotidiano.

Esempi, please?
Chi produce derrate agricole? L’uomo. Chi trae i maggiori profitti da questa produzione? Sicuramente non l’uomo che produce. A te sembra normale? Interessa ancora a qualcuno che il lavoro abbia un valore? Interessa a qualcuno che il lavoro non sia solo un modo per avere un salario ma un mezzo per esprimere le qualità e l’identità dell’essere umano?

Siamo a Natale, dammi una luce.
La luce c’è sempre! L’alba torna sempre dopo la notte e la identificherei con la vitalità e gli occhi dei giovani a patto che, questi giovani, non sfuggano alla complessità del momento. Sfide entusiasmanti attendono di essere vissute e, per tornare allo sport, al calcio, non si è mai vista una squadra che ha vinto sempre; mai. Anche nella stessa partita ci sono fasi in cui bisogna sapersi difendere, saper gestire, aspettare il momento giusto dell’attacco. La vita è fatta di fasi e la storia è caratterizzata da epoche/ere; l’importante è non morire di realismo e continuare a sognare.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.