La musica universale e le mucche del West Bengala

Parafrasando il titolo di un noto saggio sulla musica colta che Alessandro Baricco scrisse ormai venti anni fa (L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin – Feltrinelli), vorrei smontare definitivamente uno dei luoghi comuni più usato in campo musicale, da semplici appassionati come da addetti ai lavori. Qui in India, dove mi trovo tra le mucche del West Bengala, ne ho avuto prova definitiva: no, la musica non è un linguaggio universale.

La musica, o meglio le musiche del mondo, sono come le lingue. Ogni lingua ha la sua grammatica, le sue regole e così è per la musica. Le regole di ascolto cambiano da cultura a cultura, così come i riti dei musicisti e del pubblico ai concerti. Ciò che nella nostra cultura ha un valore, può non avere alcun significato in una diversa area geografica. Cosa può comprendere un aborigeno portato a San Siro davanti ai Metallica? E noi davanti a tre ore di gamelan balinese? Noi, come l’amico australiano, cercheremo probabilmente di applicare dei nostri parametri di ascolto; ci aggrapperemo un po’ al ritmo, un po’ alla melodia, cercando di dare un senso, un nostro senso a quei suoni, usando in pratica le sole regole di cui disponiamo: i nostri parametri. E l’ascolto si farebbe duro assai semmai ci trovassimo di fronte a musiche che adottano scale e quindi note diverse dalle nostre, vere e proprie altre note che noi non contempliamo più – ad esempio i quarti di tono – perché da occidentali abbiamo scelto da tre secoli un solo sistema tonale che ha pianificato tutta la nostra vita, suonerie dei cellulari comprese.

Qualche sera fa, di fronte a un concerto di musica vocale classica indiana, ragionavo su quali chiavi di lettura possedessi per comprendere anch’io ciò che il pubblico indiano al mio fianco dimostrava di gradire assai. Ben poche, in conclusione. Se il non comprendere la lingua usata è un fattore per fortuna marginale in musica – da ragazzini quante canzoni americane amavamo senza capirne le parole – cercavo almeno di riuscire a fare mie le dinamiche strumentali, ciò che succede sul palco tra i musicisti. Il primo spaesamento avviene quando vedo tutti i musicisti muovere la testa da sinistra a destra guardandosi: oddio – penso – c’è qualcosa che non va perché fanno continuamente no con la testa, probabilmente stanno sbagliando e ora dovranno ricominciare. Almeno da noi succede così. Poi mi viene in mente che quel dondolio con il quale noi esprimiamo il nostro no, in realtà per loro ha esattamente il significato opposto: stavano semplicemente dimostrando il loro assenso in tempo reale a ciò che stavano suonando. Regole, semplicemente regole diverse di una grammatica diversa. Sulla maestria vocale del cantante, nessun dubbio. Fioriture vocali che avrebbero fatto impazzire il Rossini più temerario. Ma anche qui – vedete? – adotto parametri nei quali sono cresciuto. Cosa mi è rimasto alla fine di quella musica? Senz’altro un grande senso di piacevolezza, di maestria d’esecuzione, il tutto condito da un ambiente “altro”, per me esotico. Non ho potuto gustare appieno il significato di quella musica come gli indiani presenti, non ne avevo gli strumenti.

E vale il contrario. Ai ragazzi della Calcutta School of Music che avevano assistito al mio concerto di piano solo al Tagore Centre, ho poi chiesto come avevano vissuto quell’esperienza. “Noi studiamo Western Music – la nostra musica classica europea è qui così chiamata per differenziarla dall’Indian Classical Music – e non capiamo come riesci a improvvisare così in quelle armonie, perché a noi pare impossibile. Quello che ci arriva è bello, ma non possiamo dire di comprenderlo appieno”. Et voilà.

Senza spostarsi di emisfero, anche noi viviamo la difficoltà di certi ascolti. Se affronti l’opera 5 di Schönberg senza sapere quali sono le regole musicali applicate dal compositore, arrivi stremato alla fine. Anzi, ti alzi e te ne vai prima, potendo. Non basta dire che Pollini che la esegue è un figo e che quindi qualcosa mi deve arrivare perché alla fine la musica è universale: ne comprenderò talmente poco che mi sarà poi facile liquidare il tutto con “ma è così difficile…”. E questo è il destino che vive da tempo la nostra musica colta e che Baricco ha analizzato compiutamente nel suo saggio. E trovo che ci aiuti Tagore, che scriveva che l’uomo legge male il mondo e poi dice che lo inganna.

La musica è un linguaggio universale è frase eurocentrica, retaggio di secoli di pensiero occidentale dominante. La sicurezza che abbiamo nel pensare che una sinfonia di Mozart possa commuovere un indio amazzonico, poggia sulla sola vana nostra certezza di possedere la verità del Suono e del Verbo. Intanto Fitzcarraldo è ancora là che spinge la sua nave sulla collina. E se nel saggio di Baricco si scopre che uno studio americano ci informa come l’ascolto di musica classica aumenti nelle mucche del 7,5% la produzione di latte, sarebbe interessante sapere cosa succederebbe qui, alle mucche del West Bengala. Ma diamo loro Indian Classical Music, please.

Cesare Picco

Pianista improvvisatore e compositore