La i di inglese

La prima volta che andai in Norvegia imparai quale straordinario veicolo di colonizzazione culturale angloamericana fossero i programmi in lingua originale e sottotitolati della televisione – telefilm, fiction, film, reti britanniche – ma anche di diffusione della familiarità con la lingua inglese. Quest’anno sono stato qualche giorno in Svezia e ci ho ripensato: sono popoli per cui la conoscenza della lingua inglese non è estesa solo per il livelllo di civiltà, cultura, modernità e per la prossimità geografica e linguistica con la Gran Bretagna: ma anche perché da che esiste la tv una grossa quota dei programmi sono trasmessi in inglese e non doppiati. Finisce che ti abitui.
Mi sono chiesto cosa avremo guadagnato noi italiani se una tv di servizio pubblico avesse cominciato ad abituarci a vedere i programmi in lingua originale fino dai tempi di Happy Days, e poi via via con il boom dei film americani in televisione, con le serie tv e gli show, tutto sottotitolato. Probabilmente sarebbe arrivata Mediaset con le versioni tradotte e avrebbe stravinto con gli ascolti, risponderete voi, dimenticando ancora una volta la logica del servizio pubblico che dovrebbe prescindere dagli ascolti. Ma non voglio dire che andasse fatto: immaginiamo solo che sia stato fatto, da quarant’anni. Saremmo un pochino più colti, più cosmopoliti, più preparati a vivere in questo mondo (come la piccola avanguardia che oggi si scarica dalla rete film e serie tv in inglese). Un pochino, per carità. Pazienza.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).