La casta dei poverini

Dopo il post sui “poverini” mi hanno scritto in molti, aggiungendo episodi, facendo considerazioni, chiedendomi di “fare rete”, ma anche ragazzi che chiedono spiegazioni e consigli per i dottorati all’estero (mi fa molto piacere, naturalmente). Il mio blog personale ha registrato varie migliaia di letture. Evidentemente si è toccato un nervo scoperto. E bisogna fare alcune precisazioni.

La cooptazione nell’università è a mio avviso inevitabile e utile. Bisogna però capire a che livello si colloca e come la si fa.

Un concorso universitario non è una corsa ai cento metri. È necessario valutare molti elementi. In alcuni concorsi, all’estero, valutano anche il tuo patrimonio di relazioni, quello che hai pubblicato ma anche quello che hai fatto di non immediatamente attinente alla disciplina, si cerca di capire che cosa tu possa dare all’istituzione per farla crescere. Per certi posti di professore in paesi anglosassoni valutano anche la tua potenziale capacità di attrarre studenti da fuori.

In un paese come la Francia (e non è molto diverso in Germania) la commissione è formata per esempio da 12 elementi, metà del dipartimento che bandisce il concorso (e quindi non necessariamente specialisti) e l’altra metà è composta di specialisti esterni. In questo modo la valutazione è più ampia della semplice lista di pubblicazioni. In un paese come il Belgio, per un posto da professore si compongono commissioni di moltissimi elementi, con tanti professori esterni. È impossibile potersi mettere d’accordo a priori su un candidato scarso. Vengono sempre presi i più bravi? No, ma i più scarsi della lista sono spacciati. E soprattutto esistono delle valutazioni più complessive alla base della scelta. Puoi perdere un concorso e capire perché. Alla fine di un processo di valutazione anche il candidato ha imparato molto.

Questa è una forma avanzata di cooptazione.

Oggi in Italia una commissione per un posto di ricercatore è composta da tre professori.

Il presidente della commissione è (nella mia esperienza, diretta e indiretta) quasi il 100% delle volte la persona con cui il vincitore si è dottorato o laureato. È quella persona che dà il posto. Gli altri due sono esterni e poco interessati a fare un “dispetto” al presidente. Poiché la valutazione è “comparativa”, la maggior fatica di una commissione è scrivere i verbali in modo da dire che il vincitore è comparativamente il più bravo e gli altri molto meno bravi di lui. Non è una grande fatica, perché la valutazione non è oggetto possibile di ricorso né è necessario dare spiegazioni. Basta scrivere che è così. Tra l’altro le pubblicazioni non vengono neppure lette, palesemente.

In questo modo i più scarsi e inadeguati sono in gioco sempre, esattamente come i più adeguati alla posizione. Vince chi ha il proprio professore come presidente, bravo o scarso non importa. I dipartimenti non sono interessati a valutare i nuovi ricercatori. Viene delegato tutto al presidente della commissione, che a sua volta non romperà le scatole quando sarà la volta di un collega scegliere il proprio ricercatore. Lo chiamano “accordo tra gentiluomini”. Tra i ricercatori, ormai è prassi per motivi di bilancio, ce ne sarà poi uno che vincerà il concorso da professore (con metodi simili).

È peraltro chiaro che se è un solo professore a decidere quale suo allievo avrà il posto pubblico, i criteri adottati non saranno certo quelli che l’Unione Europea indica per esempio per i suoi fellowship più importanti: leadership, pensiero indipendente, originalità. Saranno piuttosto criteri come la fedeltà, l’aderenza alle linee scientifiche del “maestro” e la capacità di non disturbare.

Questa per me non è cooptazione.

Ciò vuol dire che in Italia sono tutti scarsi? No. In Italia ci sono anche ricercatori eccellenti. Ma non sono stati scelti perché sono eccellenti. E ne avrebbero avuto il diritto. Questo è il punto che mi preme sottolineare, perché è il nodo culturale di tutta la faccenda e dice qualcosa dell’Italia.

In 12-13 anni di esperienza di ricerca professionale, io non ho mai sentito porre il problema di far vincere una persona perché capace, perché eccellente, perché poteva dare qualcosa in più all’istituzione o alla disciplina. Non ho mai sentito dire “non partecipare a quel concorso perché tanto c’è un candidato straordinario, che ha fatto cose nuove e originali, che fa lezione in 4 lingue, che ha un network scientifico mondiale”. Ho sentito solo ed esclusivamente professori usare l’argomento del “poverino”. Poverino è in difficoltà, poverino ha lavorato gratis per me 10 anni, poverino ha insegnato senza prendere un euro, poverino non potrebbe fare altro.

In questa casta di poverini (perché rimane comunque una casta, chiusa, impermeabile, conservatrice per interesse) ci sono anche ricercatori eccellenti, ma non vengono “letti” come tali.

Le conseguenze di questa lettura svalutante, che però è diventata criterio valutativo e organizzativo (e non ho mai sentito ricercatori con posto lamentarsene pubblicamente), sono straordinariamente negative su tutto il sistema.

Si insegna ai ragazzi, a quelli che cominciano, a essere rinunciatari, a essere pazienti, ad aspettare un turno che di fatto non esiste, ad essere servizievoli, a essere contenti di 900 euro al mese, a nascondere quello che si sa fare. Se si insegnasse il contrario, l’Italia sarebbe davvero all’avanguardia, perché abbiamo una preparazione secondaria molto migliore di tutti i concorrenti europei e un insegnamento universitario che si mantiene buono (i problemi cominciano con i dottorati, con non sono all’altezza dell’estero). Se si insegnasse il senso di sè e della propria funzione pubblica attraverso la ricerca e la didattica, se non si dicesse “poverini” ma “miglioratevi”, se si dicesse “vai a fare un’esperienza all’estero e poi vieni a raccontarci cos’hai imparato e capito” (oggi si dice “va be’ quello se n’è andato all’estero, e mo’ che vuole…”), se si facesse di tutto per fare venire in Italia gli stranieri, gli studenti ma anche i ricercatori e i professori (avete mai visto un professore straniero in Italia?), se si smettesse di dire ai trentacinquenni che sono giovani (che è un’oppressione linguistica che io ritengo insopportabile) cambierebbe l’università e il paese non sarebbe frenato da questa cultura, da questo malinteso interessato, da questo insostenibile andazzo. Ma certamente molti professori e ricercatori perderebbero il loro ruolo di controllori della mediocrità. Ancora una volta un tratto corporativo del nostro paese, ma da poverini.

Una volta, in preparazione a un concorso, una professoressa che sapeva che oltre ad un dottorato in filosofia avevo un master in economia alla Bocconi mi disse “Il master toglilo dal curriculum. Potrebbe sembrare che tu voglia fare il di più” (come si dice a Milano). L’anno scorso, invitato ad una conferenza in un’importante istituzione di ricerca negli Stati Uniti, l’organizzatrice del convegno mi disse “Ho visto che oltre a essere un filosofo politico ha studiato economia. Se si stufa dell’Europa, perché non comincia a venire un anno da noi?”.

Ecco la differenza è tutta qui. Ma è enorme.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.