Due cose sulla riforma delle banche popolari

Martedì 20 gennaio il governo Renzi ha annunciato un decreto legge che obbliga le più grandi tra le banche popolari a trasformarsi in società per azioni. Si tratta di un provvedimento atteso da molto tempo visto che su questo tema il consenso è quasi unanime: le banche popolari, quando assumono dimensioni eccessive, diventano dinosauri lenti ed inefficienti. Certo, non è ancora detta l’ultima parola: come spesso accade in questi casi dovremo aspettare di vedere il decreto legge pubblicato in gazzetta ufficiale per assicurarci che non ci sia qualche trabocchetto. Entro 60 giorni il parlamento dovrà convertirlo in legge, oppure il decreto perderà efficacia. È possibile anche che le stesse banche popolari, contrarie a questa riforma, riescano a bloccarne la conversione. Per quello che sappiamo, però, si tratta di un buon provvedimento: ecco perché.

La caratteristica principale delle banche popolari è il cosiddetto “voto capitario”. In poche parole, indipendentemente dal numero di azioni possedute, si avrà diritto a un voto soltanto. L’idea venne ad alcuni economisti tedeschi che nel corso dell’Ottocento cercavano di creare una banca piccola, molto legata a un territorio specifico e dove comandasse veramente “il popolo”. Si tratta di un sistema che ha dimostrato di funzionare per decenni. Quando le banche popolari sono piccole e insediate soltanto in una piccola area, spesso si instaurano una serie di meccanismi virtuosi: gli azionisti sono i primi ad esercitare il controllo sull’attività della banca, anche perché conoscono i manager di persona. Azionisti e manager, a loro volta, hanno una conoscenza diretta dei loro clienti. Questo clima “comunitario”, in cui nessuno può imporsi a forza sugli altri comprandosi la maggioranza delle azioni, spesso fa funzionare il credito in maniera migliore rispetto a come funziona quello fatto dalla filiale di un grande e anonimo istituto nazionale o internazionale che deve rispondere ad altre logiche oltre a quelle particolari del territorio dove si trova.

Le cose cambiano, però, quando parliamo delle “popolari giganti”. La riforma delle banche popolari, infatti, non tocca le piccole banche popolari, ma solo quelle con un patrimonio superiore agli otto miliardi di euro. Questi istituti non hanno nulla a che fare con le piccole e romantiche banche popolari del territorio, quelle dove, nell’immaginario comune, il consiglio di amministrazione si riunisce intorno al tavolo della trattoria locale. Le grandi popolari sono istituti di credito nati negli anni Novanta, durante la grande stagione delle privatizzazioni e fusioni. Anche se per dimensioni non possono competere con i due giganti, Intesa Sanpaolo e Unicredit (entrambe società per azioni), le popolari giganti sono tra le più grandi banche del nostro paese. Banco Popolare, Ubi Banca, Banca Popolare di Vicenza e Banca Popolare dell’Emilia Romagna sono tutte nella lista delle dieci più grandi banche italiane.

Sul fatto che le cose non vadano bene quando le banche popolari diventano troppo grandi c’è un accordo di quasi tutti i principali esperti ed economisti (la Banca d’Italia spinge da anni per una riforma del settore). Il problema in sostanza è questo: più la banca popolare cresce più si allenta quel meccanismo virtuoso di legame con il territorio che è la vera ragion d’essere della banca popolare. Come ha raccontato in questi giorni Luigi Guiso su lavoce.info, mano a mano che le banche aumentano le loro dimensioni diventa difficile o quasi impossibile per i proprietari (gli azionisti che hanno un voto a testa) controllare l’operato dei manager. Facciamo un esempio pratico: la banca popolare dell’Emilia Romagna ha 90 mila soci. Ripeto: 90 mila. Questo significa che in teoria alla sua assemblea degli azionisti hanno diritto di voto più persone di quante sono necessarie ad eleggere il sindaco di Piacenza.

Per capire perché questo è un problema bisogna immaginarsi come si svolgono queste assemblee oceaniche. I manager in carica al momento dell’assembla si occupano di organizzarle e anche solo portarci la gente in assemblea non è semplice. Provate a pensare al Banco Popolare, una banca che è il risultato della fusione di altre popolari in un arco che va da Novara al Veneto (la sede principale è a Verona). Questo significa che spesso, il management deve affittare interi autobus per portare le migliaia di azionisti sul luogo della riunione. Per contenere gli azionisti, quindi, è spesso necessario affittare un Palasport o almeno il padiglione di una fiera.

Spesso il clima, durante queste assemblee, a volte somiglia a quello di una fiera di paese, con vino, prosecco e salame offerto dalla banca, migliaia di persone (in genere anziani, ex dipendenti della banca o vecchi risparmiatori), pacche sulle spalle, racconti di vecchi aneddoti e così via. Ognuno di loro conta soltanto per un voto e raramente possiede più di qualche azione della banca. L’interesse che ognuna di queste persone ha nel buon funzionamento della società è limitato proprio da questo. Perché devo impegnarmi a seguire le faccende della banca, a informarmi su come ha lavorato il management, su quali sono le migliori strategie per il futuro, se il mio voto è solo uno tra altri diecimila e se il valore del mio investimento è di poche migliaia di euro?

Per questo motivo, quando arriva il momento di votare in queste specie di grandi sagre di paese, molto spesso si presenta un’unica lista, cioè quella dell’attuale management. Chi ha strategie alternative o altre idee per gestire la banca e contenderne il controllo ai manager in carica, raramente si prende la briga di candidarsi. Provate a immaginare quanto deve essere complicato raccogliere, uno ad uno, i voti di migliaia di persone per ottenere la maggioranza necessaria a scalzare chi si trova in carica. Il risultato di questa situazione, nella letteratura economica, è abbastanza chiaro. Il management delle banche popolari è in genere più difficile da cambiare rispetto a quello delle società per azioni e questo contribuisce a far sì che le popolari più grandi abbiano performance in genere peggiori delle altre banche. Questo si traduce in minori guadagni per gli azionisti e in una minore erogazione di credito ai clienti. La riforma, quindi, se il governo riuscirà a portarla avanti, è una buona cosa. Il sistema finanziario italiano ha ancora moltissimi problemi, ma questo è un buon inizio.

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca