Il popolo pigro delle petizioni online

Ormai da parecchio tempo si fanno riflessioni critiche sulla frequenza e diffusione delle “petizioni online”, per le quali esistono diversi siti appositi, più o meno affidabili: alcuni credono di più nel valore della promozione di cause collettive e cercano di assisterle, altri più prosaicamente le usano – promuovendo anche le più banali e cretine – per raccogliere indirizzi mail o liste di iscritti presso i quali far circolare offerte pubblicitarie remunerative.

Ma al di là di queste – rilevanti – differenze, la perplessità è sull’efficacia e le controindicazioni di simili strumenti. Sull’efficacia, perché di fatto non ottengono mai risultati particolari neanche comunicativi se non tra gli stessi firmatari. Sulle controindicazioni, perché sono diventate un surrogato soporifero di qualsiasi impegno più robusto e costruttivo, e un alibi per sottrarsi a iniziative migliori: ho-firmato-la-petizione-online, mi-sono-iscritto-al-gruppo-su-Facebook.

La riflessione, come dicevo, gira già da un po’ (ne parlammo tra l’altro con Eugeny Morozov e altri alla festa di Internazionale del 2011), ma ieri è uscito un articolo molto severo sul sito MarketWatch del Wall Street Journal: “Petizioni: da diritto costituzionale a giochino online”: «La tecnologia ha reso così facile crearne una che quella che era un’azione civica è diventata priva di significato». L’articolo cita diversi esempi di petizioni farsesche create sul servizio apposito del sito della Casa Bianca (“We, the people”) e che hanno raccolto miglia di firme, fino a quella di cui si è molto parlato per staccare il Texas dagli Stati Uniti: 123 mila firme. Il sito Change.org, che ha aperto anche in Italia, genera “15 mila petizioni online al mese, la maggior parte delle quali passa inosservata”. «È come una battaglia con le pistole ad acqua: poco sforzo e nessuna conseguenza». Nessun impegno, nessun sacrificio, nessuna reale discussione sui temi. E benché da Change.org sostengano che alcune delle loro petizioni trovino ascolto negli interlocutori, l’impressione è che la loro funzione maggiore sia a beneficio dei media e dei programmi tv che ci possono scherzare sopra o farne un caso, irrilevante.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).