Il finto buonsenso degli appalti chilometro zero

Ogni tanto le proposte più pericolose sono quelle apparentemente di buon senso. La Lega sta portando avanti, da qualche tempo in qua, una battaglia per gli “appalti a km 0”. Come spiega con efficacia l’europarlamentare Matteo Salvini, si tratta di un tentativo per rilanciare l’economia locale, aiutando a dare lavoro «a quelle imprese che sono nei territori e che sono meglio conosciute dai nostri amministratori locali».

È fin troppo facile leggere maliziosamente quest’affermazione, ricordando qualche brutta esperienza legata a situazioni nelle quali le imprese erano conosciute “troppo bene” dai politici dei territori in cui operano.

Senza malizia, valgono due considerazioni. In primo luogo, privilegiare le ditte di una certa area geografica, perché appartengono a quell’area geografica, significa che, in una gara d’appalto aperta anche ad altri, avrebbero perso. Ora, dal momento che i capitolati non sono preparati all’insaputa del committente, gli argomenti sulla migliore qualità degli appaltatori locali, o preoccupazioni circa l’ipotetica tendenza delle imprese straniere ad aprire un cantiere e fuggire senza chiuderlo, sono francamente risibili. Un ente pubblico che voglia privilegiare le aziende locali in quanto locali è un ente pubblico disponibile a spendere di più di quel che farebbe se non si curasse di chiedere il passaporto ai partecipanti alla gara. Il beneficio di impiegare quattrini “sul territorio” pareggia la maggiore spesa? Quel che è sicuro che vengono investite più risorse dei contribuenti di quanto sarebbe necessario.

In secondo luogo, le aziende che vivono di appalti pubblici hanno già un grosso problema: vivono di appalti pubblici. Sono dipendenti da commesse decise sul piano politico e operano in settori in linea di massima abbastanza protetti dalla concorrenza. Limitare la competizione non è un buon “aiuto”. Riduce lo stimolo ad innovare – indebolendo anche la parte più sana del tessuto imprenditoriale. Protegge l’occupazione “locale”? Nel senso che garantisce l’afflusso di quattrini nel breve periodo. Nel momento in cui sono ragionevolmente sicuro di vincere una gara perché sono “del territorio”, la tentazione di tirare i remi in barca è forte. Si riduce l’attenzione a quanto sta avvenendo nel mondo, e di conseguenza diminuisce l’incentivo a fare il miglior uso possibile dei fattori della produzione. L’occupazione sarà pure “tutelata” nel breve periodo, ma nel medio periodo proprio l’illusione che la ditta sia solida e il posto non sia a rischio nuoce ai lavoratori. Imprese artificialmente protette diventano estremamente fragili non appena le barriere protettive si abbassano: come avvenuto in settori in cui le protezioni di ieri sono andate in crisi all’incontro coi primi spifferi di concorrenza.

Alla classe politica sembra sempre più facile promettere cordoni sanitari che vanno immediatamente a vantaggio di pochi, piuttosto che maggior concorrenza: andrebbe a vantaggio di molti, ma su tempi più lunghi. Più competizione può indurre aggiustamenti dolorosi per imprese abituate a un mercato più piccolo. Ma proteggere le aziende “locali” perché locali è, nel migliore dei casi, un palliativo.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.