Il film più bello del 2018

C’è qualcosa di profondamente delicato ne La terra dell’abbastanza. Non è solo il modo in cui viene raccontata e messa in scena la storia – una storia di periferia, popolata dagli ultimi, fatta di miserie, contraddizioni, angosce e voglia di rivalsa. Ma è anche il modo in cui viene mostrata.

Questo è il primo film dei D’Innocenzo, eppure nel loro sguardo, nella loro regia, c’è una maturità sorprendente che richiama – talvolta molto direttamente – un altro modo di fare cinema, molto vicino a Matteo Garrone (da L’imbalsamatore a Gomorra, fino a Dogman) e a Claudio Caligari (in particolare al suo ultimo film, Non essere cattivo).

È una delicatezza che traspare dalla fotografia, dalla composizione di ogni singola scena, dalla bellezza e, anche, dalla sensualità dei due protagonisti, Mirko e Manolo, interpretati da Matteo Olivetti e da Andrea Carpenzano. È una storia che parla d’amicizia, e anche per questo, forse, il richiamo a Caligari diventa evidente. Ma è pure una storia che si nutre di dolore, di solitudine, che fotografa una parte d’Italia a lungo dimenticata, dove essere giovani non è una scusante per l’innocenza o l’inconsapevolezza; dove bisogna stare attenti, sempre, e dove morire – per un’overdose, per una pallottola, o per la più banale “disgrazia” – è un rischio costante.

Si vive sul limite, come sul filo del rasoio – e in questo La terra dell’abbastanza si avvicina molto a Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, al modo in cui il volto di Alessandro Borghi, a un certo punto, riesce a diventare tutto il film. Olivetti e Carpenzano ci mettono l’anima e il cuore, i loro Mirko e Manolo prendono vita, diventano qualcosa di tangibile, e il loro rapporto è un rapporto vero, credibile, che viene restituito pienamente allo spettatore. E i D’Innocenzo riescono a tradurre ognuna di queste cose: le mettono insieme, le amalgamano, e danno loro nuova forma, una narrazione fluida, asfissiante, che afferra alla gola chi guarda, che tira giù, che strattona.

È un film fatto di piccole cose, questo. Come Dogman. E non ha bisogno di grandi colpi di scena per funzionare. Quello di cui ha bisogno è tutto quello che ha: il contesto, l’atmosfera; una sceneggiatura attenta, precisa, meticolosa. Ha grandi attori: Max Tortora, che interpreta il padre di Manolo, uno dei personaggi più schiacciati e oppressi, che s’atteggia a Elvis davanti allo specchio e che però non esita ad usare suo figlio come scudo, come spinta, per salire, ritornare a galla e per essere uno di quelli che “contano”; Milena Mancini, che interpreta la mamma di Mirko, che è l’altra faccia di questa storia, che è il domani, quello che c’aspetta a casa, che è bravissima e dolcissima, che viene voglia di riempire di baci e d’abbracci, di stare ad ascoltare per ore ed ora, e anche di litigarci; e poi Luca Zingaretti, che qui fa il cattivo, il boss, l’infame, sottile e senza pietà, impastatore di mille affari e faccendiere criminale, ambiguo e subdolo.

E soprattutto La terra dell’abbastanza ha loro due, Fabio e Damiano D’Innocenzo, gli altri due fratelli di questo film, non come Mirko e Manolo che si sono scelti: loro sono costretti, quasi condannati a stare insieme, e riescono, nella loro visione complementare, a costruire un racconto che non sbava, che non esagera, che resta sempre lì, in sospeso e in equilibrio, che prende tutto quello che c’è da prendere dai più grandi (e volendo in questo film, in quella sensualità che dicevamo prima, nella parabola degli ultimi, c’è anche Pasolini), e che rielabora, riassetta e immagina un nuovo cinema: un neo-neorealismo, più colorato e più sfumato, assimilabile alla cinematografia americana, alla visione di certi grandi cineasti europei, illuminato e fotografato splendidamente (e qui i meriti sono di Paolo Carnera), dove hanno peso i suoni e le pause, dove le sospensioni non sono rallentamenti, ma spinte in avanti; dove ci sono due ragazzi, solo due, amici e nemici, fratelli, compagni, dove c’è l’ambiguità dell’adolescenza, dove il bene è anche amore, e dove l’amore è solo un altro modo per odiare – più dolce, ma ugualmente ossessionato.

Perché c’è anche questo, l’ossessione. E, contemporaneamente, l’assuefazione. I D’Innocenzo volevano raccontare gli effetti del male e del potere sugli ultimi, quanto facilmente le promesse possano fare presa in un mondo dove non c’è speranza, e ci sono riusciti. Hanno creato dal nulla una storia universale, fatta per tutti, a prescindere dalla lingua e dal paese da cui si proviene. Ed è per questo che La terra dell’abbastanza è un grande film. Un film, ecco, necessario. E anche il più bello e il più importante, per il cinema e chi fa cinema, per chi ama quest’arte, del 2018.

Gianmaria Tammaro

Napoletano convinto dal '91. Scrive di cinema, serie tv e fumetti. Gli piace Bill Murray. Il suo film preferito è Ricomincio da tre.