Il caso Lorena Bobbitt, venticinque anni dopo

Il 23 giugno del 1993, tra le 3.30 e le 4.30 del mattino, Lorena Bobbitt, estetista ventiquattrenne emigrata negli Usa dal Venezuela, dà vita al peggior incubo maschile: taglia il pene del marito, John Wayne Bobbitt, un ex Marine belloccio con cui era sposata da quattro anni. Non solo, mentre lui è riverso nel letto sanguinante, lei scappa in macchina con in una mano il coltello e con nell’altra l’organo maschile, fino a quando, nel panico, decide di gettarlo dal finestrino, su un prato davanti a un supermercato della catena 7-Eleven. È qui che poco dopo lo ritrova la polizia, chiamata dalla proprietaria del salone di bellezza per la quale Lorena lavora e dalla quale si rifugia. Questa la versione che tutti ricordiamo, quella data in pasto a un’opinione pubblica che proprio in quegli anni incomincia a prendere gusto al crimine fatto a spettacolo (il caso OJ Simpson, ad esempio, è del giugno 1994). Quello che però fu un po’ perso all’epoca, seppellito dalla narrativa della donna pazza e pericolosa e del povero maschio evirato, è l’altra parte della storia, quella che racconta di Lorena Bobbitt vittima di abusi, una che soffriva di disturbo post traumatico da stress, una violentata dal marito una sera sì e l’altra pure, una che aveva lividi sul corpo e paura che se lo avesse lasciato John l’avrebbe denunciata all’immigrazione e fatta deportare. A ricordarcelo è la serie in quattro episodi Lorena prodotta da Jordan Peele e disponibile ora su Amazon Video, forse non un capolavoro dal punto di vista della qualità della narrazione e delle immagini (certe ricostruzioni gridano vendetta da tanto sono sciatte), ma che ha il grande merito di inserire la storia in prospettiva, darle un contesto su cui appoggiarsi, rivisitarla con una sensibilità nuova nello stesso modo in cui, dopo venti anni, si è rivisitata la vicenda di Monica Lewinsky. Non è solo questione di #metoo. Sono aggiustamenti necessari per capire quanta strada si è fatta in termini di lotta alla violenza domestica, e di quanta ce n’è ancora da fare (nota personale sulla differenza tra le due culture: dopo averne sentito parlare, ieri ho visto lo scherzo che nella trasmissione Le Iene hanno fatto al giocatore del Napoli Lorenzo Insigne, quello in cui lui rivela una gelosia e una possessività patologiche e una preoccupante propensione a schiaffeggiare la moglie. A parte il fatto che negli Usa Insigne sarebbe oggi al centro di uno scandalo mediatico non da poco, con sponsor che minacciano di mollarlo e la squadra che avvia un’inchiesta interna, e a parte il fatto che forse queste sono esagerazioni, ma siamo proprio sicuri che anche riderci sopra sia l’atteggiamento giusto?).

Ritornando a Lorena Bobbitt. Quella notte John viene trasportato al Prince William Hospital e sottoposto a un intervento di nove ore condotto dal dottor James Sehn, un urologo, e David Berman, un chirurgo plastico, che insieme riescono non solo a riattaccargli il pene, ma anche a garantirgli che nell’arco di un anno avrebbe ripreso la funzionalità. Nel novembre del 1993, John viene processato per stupro nei confronti della moglie: la giuria composta da nove donne e tre uomini lo dichiara innocente. Nel gennaio del 1994 è la volta di Lorena ad andare a processo: l’accusa è di ferimento premeditato. Sul banco dei testimoni si alternano per giorni vicini di casa e conoscenti che sotto giuramento raccontano delle urla, dei lividi, dello sguardo basso con cui lei andava in giro per il mondo. Anche John viene chiamato. La sua versione è che Lorena ha agito per vendetta: lui voleva lasciarla, lei non voleva divorziare. Tutti i rapporti sessuali sono sempre stati consenzienti, anche quelli anali. Anzi, a ben vedere è lui la vittima: la moglie alzava spesso le mani. Negare, negare, negare è la sua strategia, così come giocarsi la carta del maschio bianco superiore e perseguitato: durante un’intervista radiofonica a Howard Stern, i due ridendo arrivano anche a dire che una moglie più brutta del marito è impossibile che sia vittima di violenza.

Quando è il turno di Lorena, la versione è ben diversa: parla di stupri multipli e continui, di violenza psicologica, di calci, di capelli strappati, di lui che le dice che è grassa e stupida. Di quella notte in cui lui torna ubriaco e pretende sesso, di lei che va in cucina a bere un bicchiere d’acqua e vede il coltello e poi cosa è successo lo sappiamo. La giuria composta da sette donne e cinque uomini la dichiara non colpevole accogliendo la teoria della difesa per cui avrebbe agito sotto infermità mentale temporanea (finito il processo, trascorse 45 giorni in un ospedale psichiatrico). In mezzo, il circo mediatico di cui sopra: magliette con le scritte LOVE HURTS, l’ingresso del tribunale preso d’assalto dagli immigrati sudamericani indignati dalle frasi razziste di John, i due processi trasmessi in diretta su CNN, le prime pagine dei tabloid, le interviste, gli articoli d’opinione, i tour della città per visitare il luogo dove è stato ritrovato il pene, i possibili adattamenti cinematografici che però non vanno in porto (Lorena dice che le piacerebbe Marisa Tomei a interpretarla), addirittura un servizio fotografico di Lorena in bikini sul Vanity Fair americano. Ma anche la sua caratterizzazione a metà tra una squilibrata e una vendicatrice (Camille Paglia definisce l’evirazione un “atto rivoluzionario”) unita alla concezione – ora anacronistica, ma allora accettata – che il sesso tra due sposati è sempre consenziente e che lo stupro all’interno del matrimonio è una contraddizione in termini. Nessuna mezza misura, nessun tentativo di comprensione legata al contesto, quello che invece possiamo fare oggi. Il 1993 sono due anni dopo il caso Anita Hill, la donna che aveva accusato di molestie Clarence Thomas, il giudice candidato alla Corte Suprema, ricevendone in cambio una “character assassination” che ancora oggi grida vendetta. Una vicenda che aveva insegnato alle donne che è inutile denunciare le molestie, tanto non saranno credute. Il 1993 è l’anno prima che in Usa passi il Violence Against Women Act firmato da Bill Clinton, la legge che fa della lotta alla violenza domestica una priorità nazionale e grazie alla quale le violenze da parte del partner diminuiranno del 64% nel periodo dal 1994 fino al 2000.

Uno di momenti chiave del processo è la testimonianza di Regina Keegan, una cliente che due giorni prima del fatto entra nel salone di bellezza dove lavora Lorena. “Chiesi manicure e la depilazione delle sopracciglia. Fece entrambi i servizi in modo pessimo”, ricorda oggi intervistata dagli autori della serie. L’altra cosa che Keegan racconta sono le braccia di Lorena: coperte da maniche lunghe nonostante sia giugno e in Virginia faccia caldo, quando le scopre si rivelano piene di lividi marroni. Non solo, Lorena ha le mani che le tremano, respira in modo irregolare, fa fatica a concentrarsi e parla a voce bassa. Lo psichiatra chiamato a deporre al processo riconoscerà questi come segni di un disturbo post traumatico da stress. Anche Keegan pur non essendo una psichiatra si accorge subito, sul momento, che la ragazza che le sta facendo le unghie non sta bene. Cerca di parlarle, Lorena accenna ai problemi col marito, Keegan dice che deve lasciarlo, Lorena ribatte che non può perché lui minaccia di farla deportare e non ha la green card. Senza insistere più di tanto Keegan paga e torna a casa, dimenticandosi dell’episodio fino a quando, del tutto casualmente, tre mesi dopo vede in televisione la faccia della Bobbitt e la riconosce, chiama il giudice e si offre come testimone.  “Ancora oggi non me lo perdono: avrei potuto e dovuto fare di più”. Per la cronaca: negli anni successivi, spentesi le luci del circo mediatico, Lorena esce di scena, riprende il suo nome da ragazza, diventa cittadina americana, si rimette e studiare, rifiuta un milione di dollari da Playboy per posare nuda e incontra il suo secondo marito, da cui ha un figlio. Oggi è una signora bionda che parla un inglese senza quasi più accento e che si occupa di prevenire la violenza all’interno del matrimonio. John Wayne Bobbitt subito dopo il fatto diventa una star, va ospite un po’ ovunque, nei locali e in tv, tenta la carriera come porno attore, arrivando a un certo punto a sottoporsi alla procedura per l’allungamento del pene. Dal 1993 a oggi altre due donne – la seconda moglie e una fidanzata – lo hanno accusato di maltrattamenti. Lui, da parte sua, ha sempre continuato a negare: “Sono un Marine, non maltratto le donne”.

Simona Siri

Vive a New York con un marito e un cane. Fa la giornalista e ha scritto due libri: Lamento di una maggiorata (Tea, 2012) e Vogliamo la favola (Tea, 2013). Segue la politica americana, il cinema e le serie tv. Ama molto l'Italia e gli italiani, ma l'ha capito solo quando si è trasferita negli Usa.