iChina

Ogni tanto la grande informazione «scopre» degli scandali che altri denunciavano da una vita, e li fa esplodere presso un’opinione pubblica che pareva fregarsene. È un po’ quello che si dice di Apple, l’azienda dell’iPhone e dell’iPad: che si limiti a «scoprire» l’esistente e a reinventarlo rendendolo popolare. Bene: chissà che a mettere insieme i due soggetti (grande informazione + Apple) non si riesca finalmente a far «scoprire» la Cina e i suoi terrificanti metodi di produzione. Il New York Times, infatti, ha «scoperto» che nelle fabbriche cinesi della Apple gli operai sono schiavizzati, spesso minorenni, lavorano sette giorni su sette, ci sono incidenti, insomma tutto il campionario che da decenni in realtà riguarda tutta la produzione cinese per tutti i prodotti del mondo. Ma chissà, forse il New York Times ha trovato la chiave di volta: «La gente», ha scritto, «sarebbe molto turbata se vedesse da dove viene il suo iPhone». Apriti Sesamo. Sarebbe l’ultimo miracolo di Steve Jobs: far scoprire la Cina dove fallirono le Olimpiadi e il Dalai Lama. Il trend – come per le imitazioni dell’iPhone – poi sarebbe inarrestabile: magari scopriremmo come la Cina fabbrica certi cachemire «made in Italy», o come estrae dagli aborti (praticati sino al nono mese) il collagene che serve a produrre cosmetici destinati anche all’Europa. Sarebbe un’applicazione pazzesca.

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Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera